Mi raccontava una conoscente, di un suo amico planner e consulente di parecchie amministrazioni nel nord-ovest degli Usa, nonché studioso critico del fenomeno dello sprawl, il quale nella fase matura della carriera si era finalmente sistemato, comprandosi una bella villa esurbana con grande giardino, raggiungibile in un’ora di Suv dalla tangenziale di Portland. Del resto anche la stessa mia conoscente, che da tempo immemore discetta in aule universitarie e non, a proposito dei costi collettivi dello sprawl, ha deciso non da ieri che dividere il proprio tempo fra una casa unifamiliare in un quartiere urbano a medio-bassa densità, e un’altra casa al centro di un parco in un ambiente semirurale a 90 minuti d’auto, è un modo come un altro per controbilanciarli con qualche beneficio, quei costi collettivi dello sprawl. Si potrebbe a prima vista considerare del tutto ovvi, questi stili di vita antipodali rispetto a quanto teorizzato professionalmente, oppure accostarli al caso apparentemente simile dei tanti architetti che per tutta la vita studiano e realizzano quei quartieri “ideali” per il proletariato urbano, che poi non sono non abitano, ma mai e poi mai si sognerebbero di frequentare nella vita di tutti i giorni. Ma forse c’è qualcosa di più.
Nessuna schizofrenia, solo specializzazione
Come hanno osservato in molti, la dispersione urbana è solo un modo di dire: la chiama così, riassumendo sotto una unica denominazione ambienti assai diversi, chi ne considera certi aspetti in una prospettiva critica e negativa. Gli altri, tutti gli altri, ovvero la maggioranza della popolazione, chiama quei posti, via via, casa quando ci abita, o paese quando ci stanno parenti o conoscenti, a volte addirittura città se non si sta a badare troppo alla distanza. E in fondo non hanno tutti i torti. Soprattutto non hanno tutti i torti a vederne la miriade di aspetti positivi come un tutto, ben diversa dalla racconta di fattori negativi che ha bisogno di qualche paraocchi metodologico. Perché quelle positività (ci sono anche i difetti, certo, pure grossi) hanno il pregio inestimabile di comporsi in uno stile di vita dove tutto si tiene, nel bene e nel male, in modo accettabile. Lo studioso o professionista che pratica per anni le proprie ricerche, insegnamenti, conferenze, pubblicazioni, consulenze, alla fine diciamo così rinuncia a quella prospettiva singolare, che gli consentiva quel punto di vista analitico, ma in fondo artificioso, e adotta lo stile di vita organico che mette insieme in vari fattori. Solo una vaga razionalità allora, gli ricorda i famosi impatti negativi dello sprawl.
La città organica
Probabilmente, molta della colpa di questa specie di schizofrenia è da attribuire al tipo di approccio che si ha ai temi urbani: tanto spazio fisico, edilizia, infrastrutture, contenitori dei servizi, rapporti fra superfici e cubature, modi di spostamento, ma poi tantissima parte di quanto chiamiamo “vita” finisce per non rientrare nell’equilibrio, nell’equazione. Detto in altre parole, l’urbanistica in quanto sintesi interdisciplinare che dovrebbe mirare a una visione complessiva delle questioni urbane e territoriali, pare proprio poco sintetica, lascia colpevolmente fuori una montagna di questioni. Per esempio, uno dei grandi successi degli ultimi tempi, la cosiddetta smart city che ha un approccio privilegiato agli aspetti immateriali della vita urbana, nasce cresce e si sviluppa sostanzialmente al di fuori dell’urbanistica, anche se a ben vedere ne invaderebbe e ne invade già ampie fette. Che dire per esempio della possibilità di gestire in tempo reale la migliore e più efficiente allocazione di spazi, col ribaltamento e azzeramento di tutta una serie di standard e fabbisogni? Tutto ben oltre l’altra considerazione, banale ma mai davvero affrontata: hanno ancora qualche senso certe destinazioni d’uso, con le possibilità offerte qui e ora dalle tecnologie? Sono solo alcune osservazioni, a introdurre uno studio sui tentativi, sinora falliti nonostante durino da decenni, di densificare una metropoli, che invece continua a consumare suolo e a disperdersi nel territorio. Dire che qualcosa non ha funzionato nella pianificazione urbanistica è un complimento: non ha funzionato praticamente nulla. Oggi si prova a integrare meglio il settore trasporti, ma forse è tutto il resto che compone gli stili di vita, urbani e/o suburbani, a dover essere messo nel conto: quando la capiremo? O forse, come suggerisce il titolo, l’urbanistica è cosa troppo seria per poter essere affidata agli urbanisti.
Riferimenti:
Kim Dovey, Ian Woodcock (a cura di), Intensifying Melbourne – Transit-Oriented Urban Design for Resilient Urban Futures, rapporto 2014 (scarica direttamente il pdf del rapporto dal sito dell’Università)
Clay Lucas, Is Melbourne an intense place? Nowhere near intense enough for planners and architects, The Age, 11 gennaio 2015