Quando parliamo di agricoltura urbana, automaticamente si corre alla qualità degli spazi, vero? Non c’è niente da fare, il riflesso condizionato pavloviano anche piuttosto coerentemente davanti all’idea di mettersi a coltivare qualcosa, là dove fino a non molto tempo fa non si pensava ad altro che ammucchiare metri cubi edificati più o meno carini, corre al dove e al come, al massimo al perché. Nell’ordine, e non a caso è spuntata questa grande visibilità degli architetti, urbanisti, ingegneri, si pone il problema di reperire superfici, magari anche di distribuirle non modo analogo a come si faceva e si fa con parchi e giardini, oppure di idearle ex novo con innovazioni tecnologiche varie, dai letti sollevati per le zone di contaminazione industriale dove la bonifica risulta diseconomica, alla classica stratificazione variamente detta vertical farm. C’è anche l’aspetto ambientale, e quello sociale, ovvero come queste nuove o recuperate superfici si possono introdurre nella gestione del microclima metropolitano, o del contrasto al cambiamento climatico, oppure come nuovi spazi e attività possano contribuire alla salute e al benessere psicofisico di chi abita o lavora nella città densa. Inutile proseguire, perché probabilmente sono già abbastanza noti i termini della questione, al lettore medio: pur nella relativa rarefazione delle esperienze concrete, di sicuro la stampa ne ha parlato in lungo e in largo, di questi aspetti, e anche la ricerca scientifica ci ha dato dentro, senza dubbio, accumulando una letteratura di tutto rispetto.
Mercato, domanda, bisogni
C’è infine la domanda da un milione di dollari, almeno nei tempi nostri dominati dal denaro: ma chi la paga, questa nuova moda per quanto virtuosissima dell’agricoltura urbana? E proprio provando a dare un’occhiata a quel che è successo in pratica «sul territorio» sinora, si inizia a intravedere l’ombra di un ago nel pagliaio, quello di una lettura da prospettive diverse, diciamo così comportamentali. Perché tante esperienze, specie quelle più innovative nell’ambiente davvero denso e problematico cittadino (cioè distinte dalle colture che sono «urbane» solo per prossimità all’area edificata vera e propria) hanno affrontato già direttamente e in modo verificabile la prova del mercato, della domanda e offerta, e quindi anche di tutto ciò che si tira appresso in termini di spontanee sinergie fra le economie urbane nel loro insieme e la nuova strana presenza dell’agricoltura produttiva. Scorrendo l’ormai corposa serie di articoli che delineano le tendenze di queste iniziative, si nota la prevalenza quasi assoluta di erbe aromatiche, insalate e poco altro, spesso rivolte a sbocchi di raggio anche minimo, come quei ristoranti che offrono direttamente in tavola ciò che la clientela può godere visivamente come panorama, sul tetto o altrove. Dunque siamo di fronte a una produzione che, visto il mercato degli spazi densi urbani, si è orientata verso ciò che sbocca direttamente in loco eliminando quasi ogni passaggio intermedio, e qualcosa anche con un certo valore aggiunto garantito. Ma salta subito all’occhio anche un’altra cosa, ovvero che non di solo basilico vive l’uomo, neppure se integrato con foglie di lattuga fresca o ulteriormente insaporito di rucola, rosmarino e simili.
Prevenire è molto meglio che curare
Dove verranno prodotti, tutti gli altri apporti nutritivi (un 99,99% periodico e rotti) necessari a non crepare di fame profumati di timo? La risposta del mercato potrebbe essere prima di vedere come si orienta nei tempi medi il settore, poi di aspettare nuove e più efficaci innovazioni, e per ultimo far conto sulle citate produzioni «urbane» che sono tali solo per prossimità all’area cittadina densamente edificata e popolata, ovvero tutte le fasce di greenbelt metropolitana e analoghe. Ma come dimostrano ormai numerosissimi studi, è comunque necessario un ragionamento in prospettiva ribaltata, a modificare la domanda anziché rispondere abbastanza passivamente a quella attuale. Se il riflesso pavloviano del dove si coltiva tirava in ballo in prima istanza la cultura degli architetti e urbanisti (oltre alle ubique e ovvie discipline agronomiche), la nostra inedita prospettiva adesso pretende la discesa in campo delle scienze dell’alimentazione e della dietologia. Perché quegli spazi, geniali che siano architetti e urbanisti, non saranno mai e poi mai e poi mai in grado di riprodurre neppure una frazione di quel che accade nei sistemi estensivi industrializzati attuali, che ci garantiscono sopravvivenza e la cosiddetta «dieta onnivora» ricca tra l’altro di proteine animali. Detto in altri termini e molto bruscamente, un distretto produttivo agricolo locale metropolitano, convenzionalmente a km0, sostenibile, rispettoso delle risorse naturali, resiliente, e in grado di agire in sinergia con gli altri enunciati obiettivi dell’infrastruttura verde, può sperare di funzionare (in tutto o in parte) solo e soltanto se gli abitanti adottano una dieta assai diversa da quella prevalente attuale. Una dieta in cui la coscina di pollo, la scaloppina, l’hamburger eccetera magari non sono religiosamente esclusi, ma assumono la frequenza (e probabilmente il prezzo relativo) con cui erano consumati, magari solo immaginati, dai nostri trisavoli contadini. Se non vi piace, iniziate a leggere il manuale del perfetto cosmonauta, per lanciarvi nello spazio siderale alla ricerca di altri pianeti, su cui allevare le mandrie infinite e i pollai sterminati. Altrimenti, questo è ciò che passa il convento, meglio iniziare a riflettere in quella prospettiva.
Riferimenti:
Ajit Niranjan, It’s Time for Cities to Talk About Abandoning Meat, How We Get To Next, aprile 2016