Gli spazi ideali hanno in genere un difetto di metodo piuttosto vistoso, nell’essere concepiti idealmente per qualcosa di altrettanto ideale, ovvero società, comportamenti, contesto generale (geografico, ambientale, economico …) del tutto ipotetici, auspicabili, a volte se non spesso da ottenersi proprio grazie agli effetti corroboranti di quel medesimo spazio. Cosa del tutto fattibile finché l’utopia rimane rigorosamente tale, ovvero un «non luogo» in un non spazio dove si muove una non società, salvo nella narrazione dell’utopista. Assai più goffa, squilibrata, con decisi scivolamenti nel tragico (o nel surreale) quando la si realizza Brick & Mortar nella realtà, specie se non si ha davvero idea di muoversi nell’ambito della messa in pratica di una narrazione utopica. Perché proprio lì sta il problema delle innovazioni urbane, di vasta scala o pervasività: l’incoscienza di andare a operare dentro contesti infinitamente più complessi e reattivi (nel bene e nel male) alle proprie provocazioni. Che se fossero considerate in partenza come tali, costruite e proposte esplicitamente per tutti in quel modo, probabilmente avrebbero effetti meno dannosi, per sé e per la città. Osservata in una prospettiva del genere, assume molto più senso qualunque saga individuale o familiare o di gruppo dentro il filone «urbanizzazione novecentesca», tra alloggi familiari che non corrispondono affatto alla realtà e percezione della famiglia reale, quartieri che faticano assai a cogliere il senso della piccola comunità urbana, servizi e mobilità con considerano gli utenti una specie di materia prima da frullare e servire in tavola.
Spazi flussi e mix funzionale
Quante ne abbiamo viste, di queste «utopie non dichiarate»? Tantissime, forse tante quante sono le varie proposte innovative di spazi funzionali di una certa entità che si discostavano decisamente dalla norma accettata proponendosi come l’avanguardia verso il futuro. Quella più facile e al tempo stesso complicata da citare, è sicuramente il centro commerciale introverso suburbano: si tratta contemporaneamente di una utopia concepita in quanto tale (e in parte raccontata così) che funziona, ma i mutamenti che induce in parte non sono affatto quelli previsti dai proponenti, in parte sono da considerarsi assai negativi, e per nulla «collaterali». Lo scatolone che si colloca in posizione autostradale strategica nella fascia metropolitana suburbana, stravolge il sistema sociale, relazionale, di consumi, e poi anche spaziale dentro cui e per cui era stato pensato. Lo fa al proprio interno coi comportamenti di acquisto e tempo libero, nelle immediate e meno immediate vicinanze coi flussi di spostamenti e relative infrastrutture, e naturalmente ha il suo effetto più noto e vistoso nell’altro da sé rappresentato dal commercio urbano tradizionale, messo in crisi, trasformato, rivoltato come un calzino al pari della medesima città che lo contiene, e tutto come effetto di questa utopia spazial-commerciale-sociale.
Futurologi e pasticcioni
E lo shopping mall è soltanto uno dei tantissimi esempi piccoli o grandi, di queste innovazioni che imboccano varie strade evolutive o magari vicoli ciechi senza alcuno sbocco, di solito molto meno note delle utopie «vere» che si presentano con la propria narrazione canonica, ma pur nel campo del mercato utilizzando percorsi in tutto e per tutto analoghi. A volte azzeccando, tante altre no, ma forse per una chiave interpretativa e critica utile questa prospettiva utopica è un ottimo strumento di lettura e ammortizzatore: il «mercato» propone qualcosa di cui vede i presupposti, oppure intende manovrare (e azzardare) in loro assenza, sperando di spuntare vantaggi? La riqualificazione urbana, per esempio, da molti anni si esercita in numerosi formati spaziali innovativi del genere, dal nodo di trasporti e attività composite, al quartiere per nuclei familiari variamente «anomali» (i microalloggi per nuclei Millennial senza figli per esempio), alle quanto mai varie declinazioni del mixed-use. Ma a volte la domanda esiste, altre volte si riesce a crearla artificialmente attraverso l’offerta, altre ancora no, e quei luoghi diventano dismessi prima ancora di essere terminati. Oggi un approccio del genere azzardato è di sicuro quello riguardante la driverless car, e i suoi effetti sulla città e i comportamenti. Si parte da pure supposizioni futurologiche, a cui non corrisponde alcun che, visto che di quelle auto non ne circolano, e men che meno se ne avverte qualche effetto (salvo sulle oscillazioni azionarie). Ma pur su basi così labili, per non dire inesistenti, l’elucubrazione arriva a formulare una organizzazione spaziale fisica di massima, come se andassimo a progettare la casa di una entità del tutto sconosciuta: ha senso? Ecco: forse usando un metodo storico critico desunto dalla lettura di utopie analoghe, recenti o meno recenti, si può evitare sia la diffidenza pregiudiziale, che l’entusiasmo del consumatore «urbanista-nerd».
Riferimenti:
– Rachel Quednau, What’s up with all those empty commercial storefronts in new mixed use developments? Strong Towns, 6 giugno 2018
– Brian Jencek, Jerome Unterreiner, People-Driven Design: Planning for the Urban Future of Autonomous Vehicles, Urban Land, 24 maggio maggio 2018