La rendita ha a che fare col luogo, per motivi storici ovvi e riconosciuti: stai seduto in un posto che per caratteristiche proprie o di relazione differenziale con altri posti produce aspettative su cui altri investono, e via di questo passo. Che sarebbe in sé cosa positiva come tutti gli stimoli vari al darsi da fare e relazionarsi, non fosse che come ben sappiamo quando quel «vivere di rendita» inizia a prevalere troppo sul resto (cioè quando le aspettative non sono stimolo ad alcuna azione significativa di miglioramento attivo) si finisce per incartarsi si sé stessi. Del resto anche il giustamente stigmatizzante termine «speculazione» già definisce in partenza l’idea dello starsi a guardare e basta, senza muoversi e far muovere null’altro che nuovi speculatori, in un sistema di specchi girati l’uno sull’altro che ben rappresentano ad esempio l’autoreferenzialità finanziaria. Un tempo la rendita fondiaria era ovviamente legata alla capacità produttiva dei terreni derivante dalla loro qualità agricola, minimamente condizionata dagli investimenti in migliorie, e dalla prossimità ai mercati di sbocco dei prodotti. Mercati collocati nelle città verso cui rapidamente si spostò la rendita, denominata urbana, e fondata sulle aspettative di insediamento di individui, famiglie, imprese desiderose di approfittare di quel fertile contesto di vita e attività, esattamente come i semi nei terreni agricoli avevano succhiato acqua elementi chimici e luce solare. C’era però quel limite di equilibrio, fra le aspettative e ciò che producevano.
Il cappio al collo di sé stessi
Se hai piantato dei semi in un terreno e crescono molto bene, logica vuole che decidendo di farne crescere di più tu possa provare a concentrarne sulla medesima superficie, e/o allargare la superficie coltivata. Nel caso dei mattoni e tubi piantati in città la questione per certi versi è analoga, ma per altri infinitamente più articolata, dato che il «terreno fertile urbano» non dipende solo da elementi chimici, acqua, suolo e luce solare, ma prevalentemente dalle attività umane che vi svolgono, vi si potrebbero svolgere, e dai loro infiniti intrecci. Sino ad un certo punto una certa analogia col criterio estensivo dell’agricoltura ha funzionato nell’epoca dei mezzi di comunicazione e trasporto meccanici, quando si sono affermati quei criteri di relativa «indifferenza alla localizzazione» di tante attività, che comunque riuscivano a fare sistema collegandosi in rete grazie alle sempre più sofisticate innovazioni tecnologiche, per scambiare elementi fisici e informazioni immateriali. Ma analogamente a ciò che accade poniamo con un campo di grano, quando allargandosi tendenzialmente all’infinito trova l’ostacolo di un terreno inadatto (una montagna, un deserto, un corpo d’acqua), anche i processi locali e globali di sprawl o decentramento che dir si voglia hanno trovato vistosi limiti: da quelli ambientali di consumo di risorse non rinnovabili, a quelli sociali e relazionali, dato che la «civitas» a quanto pare con noialtri scimmie nude riesce a funzionare solo quando riusciamo ad annusarci l’un l’altro abbastanza spesso e abbastanza da vicino. Succede così che negli anni più recenti si sia parecchio ridimensionata, almeno per le attività che già ai massimi livelli praticano da sempre l’indifferenza localizzativa, quella valvola di sfogo alle rendite urbane speculative che era stata per decenni lo sprawl. Ma con effetti che lo stesso sprawl poi lo spingono egualmente, in un modo o nell’altro.
La gentrification pianificata a propria insaputa
Il meccanismo di base ormai è abbastanza noto e si sta riproducendo con allarmante rapidità in tanti territori. Ci sono le imprese della cosiddetta economia della conoscenza, e via via sempre di più anche altre, perlomeno nei loro comparti di punta che praticano qualcosa del genere, interessate ad una localizzazione centrale, o comunque a ripensare il proprio rapporto con lo spazio urbano in termini civici e relazionali. Spingono così per l’abbandono del modello castello-fortezza dello office park suburbano isolato da tutto, quello che aveva fatto in sostanza dalla metà del ‘900 da pioniere allo sprawl automobilistico di massa «qualificato» ovvero un passo, simbolico e non, più avanti dell’antico decentramento industriale da villaggio operaio. Le amministrazioni locali, ancora alle prese con le cicatrici irrisolte di quelle ed altre delocalizzazioni economiche (produttive, terziarie, direzionali, di ricerca, universitarie e relativi servizi) si sono da molto lanciate in una concorrenza tra territori circoscrizioni e bacini, a volte con pochissima esclusione di colpi fiscali o urbanistici, pur di accaparrarsi o mantenersi se già sono lì dentro, questi sedicenti motori di sviluppo socio-territoriale. Il che in una logica contabile-liberale in fondo parrebbe funzionare magnificamente, se non fosse per quell’effetto collaterale a torto sinora qualificato come tale, ovvero un processo di classica, brutale, violenta gentrification: espulsione in massa da quartieri «riqualificati», a volte via via da interi settori metropolitani, di tutte le fasce demografiche e sociali non corrispondenti al modello della creative class allargata che si collega alle nuove professioni, stili di vita, consumi «della conoscenza». Ovvero, detto senza troppi giri di parole, obliterazione della città in quanto tale, sostituita da una specie di neo-suburbio molto densificato e mixed-use, ma pur sempre segregato e monoclasse come sempre sono stati questi luoghi esclusivi, orribili, insostenibili. E come altrettanto noto la popolazione espulsa andrà a occupare esattamente il contesto abbandonato da quelle attività economiche migranti, impoverendosi e impoverendo ulteriormente territori, ambiente, società locali e non. In una situazione in cui l’antica tiritera della «nuova frontiera di sviluppo» costituita dall’urbanizzazione fisica che poi si trascina tutto il resto, non esiste più, se non nella testa di qualche fossile mentale rimasto inchiodato suo malgrado a modelli morti e sepolti. C’è una via di uscita non regressiva? A giudicare da questo abbastanza entusiasta articolo di Forbes sulla concorrenza tra distretti per accaparrarsi i giganti dell’economia, parrebbe proprio che in pochi si pongano sul serio il problema.
Riferimenti:
Pete Saunders, Tech’s Competing Future Urban Visions, Forbes, 15 novembre 2017