Verde pubblico e distanza sociale

Foto di e con F. Bottini

Che fare quando si vedono persone in uno spazio pubblico all’aperto o in un parco, quando secondo i criteri di distanza dovremmo perlopiù restare a casa nostra auto-isolati? Che equilibrio cercare tra i nostri diritti quotidiani ad attività in qualche modo collettive e il rischio? Con chi e in che modo ci possiamo incontrare fuori casa? Tutte questioni aperte da quando le varie autorità a partire da marzo ci hanno chiesto di stare tra le pareti domestiche per contribuire e salvare vite e arginare il diffondersi dell’ignoto Coronavirus. Ma è la stessa organizzazione urbana a far sì che tenendo conto del modo di abitare, delle densità, dei modi di lavoro, chiedere alla popolazione di restare indefinitamente al chiuso rappresenti una sfida a costruirsi stili di vita alternativi.

Dall’inizio del lockdown la gran maggioranza delle persone si è adeguata al distanziamento sociale prescritto quando si va fuori. Ma si parla anche moltissimo su tutti i media di chi si raduna nei parchi a fare dei picnic, a giocare al pallone, a usare il verde come in temi normali insomma. Con grande costernazione di chi lo considera un grave spudorato insulto alla salute pubblica, al nostro servizio sanitario e a chi ci lavora. In molti casi, magari non ci si pensa proprio a tutte le implicazioni di questo contatto con gli altri, ma il tutto viene percepito in una prospettiva nettamente divisa tra bene e male, che non tiene conto della complessità di comportamenti durante una pandemia. Proviamo a guardare le cose per quello che sono. Non tutti coloro che corrono, passeggiano, pedalano, portano a spasso il cane, prendono un po’ di sole o passano il tempo con la famiglia, infrangono per ciò stesso le regole di distanza sociale. Quasi tutti stanno attenti, corretti, a mantenere lo spazio di sicurezza. Certo resta una piccola percentuale che non lo fa, ed è su quelli che si accaniscono i media. Chi non ci bada proprio, e va a incontrare amici senza cautele. Si esce semplicemente per il bisogno di stare all’aperto insieme ad altri, ad alleviare quella sensazione di isolamento e stanchezza che sorge dallo stare al chiuso, sempre lì, per la maggior parte della giornata. Appare chiaro che tra i bisogni dello stare in città esista questo contatto, ancora più impellente quando è regolato dalla legge.

Verde e parchi rappresentano un nodo critico di queste questioni sanitarie e di benessere. Contribuiscono ad alleviare lo stress, ansia, depressione, alla salute e al benessere del corpo, ad attenuare l’aggressività, a lavorare meglio, a prenderci più responsabilità. Gli spazi verdi sono anche ambiti fruibili contemporaneamente da una certa quantità di persone mantenendo la distanza sociale di sicurezza, un vantaggio spesso sottovalutato dai media: anche migliaia di persone, in un parco urbano possono apparire tantissime se non le si pensa diluite su quelle decine di ettari. Il tutto, preso nell’insieme, è fondamentale per l’idea di vita quotidiana quando essa è stata sospesa e sostituita con quell’equilibrio tra segregazione e comunicazione digitale. Cambiamenti, e adeguamenti personali necessariamente velocissimi, che sono da comprendere in una nuova idea di uso degli spazi all’aperto.

Chiusi per adesso palestre, scuole, cinema, bar, ristoranti, e anche luoghi di lavoro socializzanti, parchi e verde rappresentano quasi l’unica alternativa alla propria casa. E dunque sono molte di più le persone che cercano la natura, per salute e benessere. Però questa nuova utenza, che esprime un’idea diversa di quegli spazi, che entra in conflitto con quella corrente complica le cose. Sino a che punto si riescono a valutare le distanze di sicurezza? E in un parco tutto ciò si mescola alle sensibilità individuali di interazione fisica anche molto diverse, e figuriamoci con tutti coloro che corrono, pedalano, portano un cane, in apparente casualità e confusione non chiarissima a tutti. Quanto veloce avanza chi sta correndo, e quel ciclista non sta andando a una velocità pericolosa, e quei due che camminano in coppia non potrebbero mettersi in fila sul sentiero? Tutte situazioni che abbassano la soglia di tolleranza ai comportamenti percepiti a rischio. E poi se vediamo qualcuno seduto sull’erba o che prende il sole possiamo assumere un atteggiamento negativo a prescindere, dopo che i media li hanno bollati come atteggiamenti rischiosi. Una persona da sola nello spazio sarà un problema o si tratta solo di percezione distorta?

I parchi fanno bene e tutti sono perfettamente consapevoli della necessità e modi di mantenere la distanza sociale. Tutti capiscono anche il valore del verde per la salute e benessere, cittadini e (sembrerebbe) istituzioni. Chiudere l’accesso ai parchi peggiora le cose, e dunque valutando le esigenze di tutti e operando entro parametri e regole di distanza possiamo continuare a usarne anche in questa fase. In Gran Bretagna col prolungamento delle misure di lockdown si pensa oggi di adottare norme più restrittive contro il contagio proibendo le attività fisiche all’aperto. Le amministrazioni locali già chiudono le aree di gioco come a Glasgow e per i parchi di Londra si temono contatti e contagi. Se ciò accadesse a livello nazionale significherebbe di fatto tagliare ogni contatto delle persone e della società col «fuori» che molti avvertono come esigenza. Si amplifica anche il senso di isolamento e ci si allontana da una situazione di normalità. Un ulteriore effetto è quello di peggiorare la percezione stessa dei parchi come spazi di grande valore sociale ecologico e di abitabilità urbana. Il Ministro per le Amministrazioni Locali, il 18 aprile ha dichiarato che «le persone hanno bisogno del verde» e le città hanno il dovere di mantenerlo accessibile e sano.

Il governo centrale considera la distanza sociale imposta come strumento di mantenimento dell’ordine nello spazio senza escludere la chiusura dei parchi. Pur dotata di qualche senso operativo e coerenza questa politica di chiusura totale non funzionerebbe. Perché si continuerà a uscire di casa magari rischiando addirittura l’arresto, e molto meglio sarebbe invece sfruttare forze dell’ordine e anche eventualmente cittadini volontari per informare e orientare l’utenza nelle attività all’aperto, anziché svalutare così il verde e i suoi vantaggi. Chiudere vuol dire impedire ad alcuni segmenti sociali molto individuabili, ovvero poveri e minoranze etniche, l’uso di quegli spazi. Comunità che già come spiegato dalla dottoressa Meredith Whitten godono meno dei benefici del verde per problemi abitativi e di localizzazione geografica. Limitare ulteriormente l’accesso ai parchi esaspera situazioni già penalizzate.

Come utente abituale del verde oltre che ricercatore sul tema dei parchi e del loro valore spaziale, considero l’idea di chiusura come un modo per peggiorare i rischi di diffusione di Covid-19 anziché contenerlo. Ma invece considero i medesimi parchi un mezzo strategico da usare oggi. Senza verde accessibile le persone saranno più isolate, perché né Zoom né Google Hangout possono certo sostituire una boccata d’aria fresca e una passeggiata di mezz’ora nello stimolare il pensiero. Personalmente, trovo indispensabile uscire e far movimento, da solo o coi bambini che corrono una decina di minuti, e oggi mi manca anche rincorrere il tram la mattina per fare un po’ di esercizio fisico. I parchi fanno bene, le persone li usano consapevolmente e possono mantenerci la distanza sociale. Capiscono il loro valore per la salute e il benessere.

da: AA.VV. Pandemics and the city articles from Manchester Urban Institute, aprile 2020 – Titolo originale: Whose park is it anyway? Social distancing and park users during the COVID-19 pandemic – Traduzione di Fabrizio Bottini

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