Vertical farm: lasciamo perdere un istante gli architetti, per favore

affittasi_capannoni

Foto F. Bottini

A costo di annoiare, subito (così non ci pensiamo più) un paio di concetti base: ci stanno prendendo parecchio per i fondelli con l’uso disinvolto delle parole; e last but not least per capirlo e reagire senza troppe storie basta guardare ciò che abbiamo davanti al naso. Iinvece qualcuno per il naso pare intenzionato a farsi menare parecchio, per esempio sfottendo certi progetti architettoidi assai pompati dalla stampa di informazione. In realtà dura da qualche anno, l’assedio mediatico delle torri sedicenti sostenibili giusto perché ostentano qualche ciuffo di verde più della media, ma di recente per via del premio internazionale al Bosco Verticale milanese le raffiche si sono infittite, su un versante e l’altro. Anche perché, come succede puntualmente, slogan vincente non si cambia, al massimo si scimmiotta, e così ormai si sprecano tutti i colori e sfumature del verde a varia inclinazione, appiccicate a variegati progetti edilizi e soprattutto ai renderings. Fin qui non ci sarebbe praticamente nulla di nuovo: prezzi a parte, anche il metro cubo si deve vendere come i formaggini, ed è giusto provare a farcirlo di canzonette tipo dove il verde è più alto l’inquilino è più felice eccetera. Ma vuoi per eccesso di zelo, vuoi per vera ignoranza, ogni tanto (ogni quasi sempre) l’asino casca nell’accostamento sbagliato, diretto o indiretto, con la vertical farm.

Parole, Parole, Parole

A ben vedere, qui la parola più importante non è tanto il sostantivo che corrisponde a coltura urbana ad elevata densità, ma quel “diretto o indiretto”. Perché appare evidente a tutti, non c’è bisogno neppure di un particolare titolo di studio a capirlo, che farm evoca qualche genere di produzione agricola, ovvero di solito di roba che si mangia, e anche nei renderings più fantasiosi non ci azzecca nemmeno l’ombra di un fagiolino, solo lussureggianti ornamentali. Ma certo anche il vivaismo è attività agricola, volendo, e dunque si potrebbe in teoria accostare, a voler essere precisi, però stiamo parlando di architetti, di gente che col rapporto spazi e funzioni ci va a letto tutte le sere e si sveglia la mattina. E qui è proprio l’idea anche più elastica di farm ad allontanarsi nello spazio: vivaio orto o campo hanno un certo rapporto tecnico e organizzativo con ciò che gli sta attorno, e quei cosi con le cascate di verde non ci pensano neppure a instaurarne uno. Magari sì, dal punto di vista tecnologico possono diventare degli esperimenti sui tubi di irrigazione, sulla capacità di questo o quel tipo di piante di prosperare in certe situazioni, ma nulla di più. C’è anche l’aspetto – secondario ma importante trattando di agricoltura urbana – dei rapporti coi comportamenti umani, e di quelli con ambiente, emissioni, isolamento, tutto da verificare oltre i rendering e gli slogan pubblicitari, ma da non escludere. Ma siamo ancora a qualche anno luce da un rapporto diretto con qualsivoglia variante della vertical farm.

L’oggetto del contendere

Avvicinandoci alla conclusione, ma ancora a rischio di annoiare, forse è il caso di ricordare che l’obiettivo della coltura urbana tecnologica ad elevata densità non è esattamente quello di rilanciare l’immagine internazionale dell’architetto e dell’edilizia di lusso. Macché: l’obiettivo è quello di concentrare sostenibilmente in poco spazio, e in organizzazioni compatibili e sinergiche con altre attività umane, la produzione di alimenti. Le forme che assume, tale produzione sostenibile e compatibile, sono molto sinteticamente quelle che mescolano una serra a un edificio normale, vuoi residenziale, vuoi produttivo o di servizio, meglio ancora se plurifunzionale. L’ideale assoluto, anzi, è che recuperando il sogno razionalista dell’unità di abitazione integrata, la vertical farm sperimenti la convivenza fianco a fianco di una intera filiera residenziale-sociale-produttiva, dove (magari non necessariamente a scala di edificio, certo di quartiere) si realizzano forme parziali di autosufficienza. Ecco perché, molto ma molto prima di considerare i piuttosto risibili schizzi di verde a mascherare solidi metri cubi immobiliari, la sperimentazione delle colture urbane a elevata densità, e la nostra attenzione, dovrebbero concentrarsi su altre forme, quelle che partono banalmente da qualcosa di assai analogo agli orti metropolitani, e da lì cominciano un processo di verticalizzazione. Procedere in senso inverso, slogan pubblicitari a parte, è una stupidaggine. Leggere per credere la piccola ma coerente esperienza nell’area suburbana di New York che segue.

Riferimenti:

Tracey Porpora, Urban agriculture makes its way to Staten Island’s West Shore Green Zone, Staten Island Advance, 13 dicembre 2014

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