Victor Gruen era piccolo, risoluto, irrefrenabile, una testa di capelli arruffati, sopracciglia come cespugli bisognosi di potatura. Secondo un profilo stilato da Fortune (la gente adorava stilare profili di Victor Gruen) era “un conversatore torrenziale con occhi brillanti come mica e una mente veloce come mercurio”. In studio, era famoso per tener occupate a tempo pieno due o tre segretarie, muovendosi da una all’altra, dettando senza pause nel suo marcato accento viennese. Era cresciuto nell’ambiente della buona Vienna ebraica anteguerra, e aveva studiato all’Accademia di Belle Arti: la stessa scuola che, qualche anno prima, aveva respinto un artista alle prime armi di nome Adolf Hitler. La sera, Gruen si esibiva in spettacoli di cabaret satirico, nei caffè pieni di fumo. Emigrò nel 1938, la stessa settimana di Freud, con uno dei suoi amici del cabaret travestito da truppa d’assalto nazista a guidare l’auto con lui e sua moglie fino all’aeroporto. Presero il primo aereo disponibile, verso Zurigo, arrivarono fino in Inghilterra, e poi salirono sulla Statendam verso New York, sbarcando, come Gruen ricorderà più tardi, “con una laurea in Architettura, otto dollari, e niente Inglese”. Durante il viaggio, un Americano gli aveva detto di mirare in alto: “non tentare di lavare piatti o fare il cameriere, ne abbiamo milioni, di quelli”. Ma Gruen non aveva bisogno di quel consiglio. Insieme a qualche altro emigrato tedesco formò il Refugee Artists Group. La moglie di George S. Kaufman era la loro principale ammiratrice. Richard Rodgers e Al Jolson fornirono soldi. Irving Berlin li aiutò a fare musica. Gruen prese un treno per Princeton, e tornò con una lettera di raccomandazione di Albert Einstein. Per l’estate del 1939 il gruppo era Broadway, con undici serate al Music Box. Poi, come ci racconta Jeffrey Hartwick in Mall Maker, la sua nuova biografia di Gruen, un giorno lui uscì per una passeggiata in centro e incappò in un vecchio amico dei tempi di Vienna, Ludwig Lederer, che voleva aprire una boutique di articoli in pelle sulla Fifth Avenue. Victor accettò di progettarlo, e il risultato fu una facciata di negozio rivoluzionaria, con una piccola galleria all’ingresso, più o meno di quattro metri per cinque: sei squisite scatole di vetro, faretti, marmo finto, vetro verde ondulato sul soffitto. Era una “trappola per clienti”. Si trattava di una nuova idea nella progettazione commerciale americana, in particolare sulla Fifth Avenue, dove tutte le facciate dei negozi in una logica da commercio stradale traboccavano sul marciapiede. I critici andarono in estasi. Gruen progettò Ciro sulla Fifth Avenue, Steckler su Broadway, Paris Decorator sul Bronx Concourse, e undici filiali della catena californiana di abbigliamento Grayson’s. Nei primi anni Cinquanta, ideò un centro commerciale aperto chiamato Northland, fuori Detroit, per J.L. Hudson. Copriva una superficie di circa settanta ettari, e un parcheggio con quasi diecimila posti auto. Questo avveniva quando erano trascorsi poco più di dieci anni dallo sbarco dalla nave, e guardando le ruspe che iniziavano a smuovere il terreno Gruen si voltò verso il suo socio e disse: “Mio dio, se ne abbiamo di faccia tosta”.
Ma la creazione più famosa di Gruen è il suo progetto successivo, a Edina, appena fuori Minneapolis. Cominciò a lavorarci quasi esattamente cinquant’anni fa. Si chiamava Southdale. Costò venti milioni di dollari, conteneva settantadue negozi e due grandi magazzini a fungere da “anchor”, Donaldson’s e Dayton’s. Fino ad allora, la maggior parte dei centri commerciali erano stati ciò che gli architetti amano chiamare “estroversi”, a significare che vetrine e ingressi si affacciavano sia sul parcheggio che sui percorsi pedonali interni. Southdale era introverso: pareti esterne cieche, e tutta l’attività focalizzata all’interno. I centri commerciali suburbani erano sempre stati all’aperto, con i negozi collegati da passaggi esterni. Gruen concepì l’idea di mettere l’intero complesso sotto un tetto, con aria condizionata per l’estate e riscaldata per l’inverno. Quasi tutti i principali centri commerciali erano stati realizzati su un solo livello, il che comportava lunghe e faticose camminate. Gruen mise i negozi su due livelli, collegati da ascensori e accessibili da un parcheggio a due livelli. Al centro, sistemò una specie di piazza urbana, un “cortile a giardino” sotto un lucernario, con una vasca dei pesci, enormi sculture a forma di alberi, una voliera di sei metri piena di uccelli colorati, balconate con cascate di verde, e un caffè. Il risultato, come scrive Hardwick, fece scalpore:
“All’inaugurazione del centro commerciale di Minneapolis arrivarono tutti i giornalisti delle principali testate del paese. Life, Fortune, Time, Women’s Wear Daily, New York Times, Business Week e Newsweek, tutti dedicarono spazio all’avvenimento. Stampa nazionale e locale, consumarono superlativi tentando di cogliere l’atmosfera di Southdale. “Il più spumeggiante centro degli Stati Uniti”, decantava Life. Il patinato settimanale lodava l’inconsueta combinazione di “una vasca di pesci rossi, uccelli, arte, e cinque ettari di negozi tutti … sotto un unico tetto del Minnesota”. Un “Parco sotto una cupola con parcheggio”, salutava Time. Un giornalista dichiarò che da un giorno all’altro Southdale era diventato parte integrante della American Way of Life”.
Il centro commerciale di Southdale esiste ancora. Sta sulla Statale 494, a sud del centro di Minneapolis e a ovest dell’aeroporto: una grossa scatola di cemento in un mare di parcheggi. Le catene “anchor” ora sono J.P. Penney e Marshall Field’s; c’è un negozio Ann Taylor, un Sunglass Hut e un Foot Locker, e qualunque altro marchio dei negozi che potete vedere nei centri commerciali. Non sembra un edificio storico, il che è precisamente il motivo per cui lo è. Cinquant’anni fa, Victor Gruen ha progettato un complesso commerciale perfettamente chiuso, “introverso”, con molti ingressi, con due catene “anchor”, un cortile-giardino sotto una cupola trasparente. Gruen non ha disegnato un edificio, ma un archetipo. Per un decennio ha tenuto conferenze sul tema, e ci ha scritto libri, e incontrato un costruttore dopo l’altro sventolando eccitato le mani, e nell’ultimo mezzo secolo quell’archetipo è stato riprodotto così fedelmente e in così tante migliaia di occasioni che oggi, virtualmente, qualunque americano suburbano fa la spesa o passeggia in un facsimile di Southdale almeno una volta o due al mese. Victor Gruen può essere considerato il più autorevole architetto del ventesimo secolo. Ha inventato il centro commerciale.
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Urbanistica e regole erano di grande importanza, per Gruen. Dopotutto, era un socialista, e un viennese. Alla metà del XIX secolo, Vienna aveva demolito le mura e altre fortificazioni che l’avevano cinta dai tempi medioevali, e negli spazi aperti ricavati aveva costruito la Ringstrasse: un’aggiunta meticolosamente articolata alla vecchia città. C’erano case ad appartamenti, piazze pubbliche, edifici governativi, gallerie commerciali, ciascuno realizzato in quello che si riteneva fosse lo stile storicamente appropriato: La Rathhaus in alto Gotico; il Burgtheatre in primo Barocco; l’Università puro Rinascimento, e il parlamento classico Greco. Era tutto parte della risposta viennese ufficiale alle sollevazioni popolari del 1848: se l’Austria doveva rimodellarsi come democrazia liberale, Vienna doveva essere rifatta fisicamente secondo linee democratiche. Il Parlamento ora si affacciava direttamente sulla strada. Le mura che separavano l’élite di Vienna dalla plebaglia dei sobborghi erano demolite. E, più importante di tutto, una strada ad anello, o Ringstrasse – un grande viale – era realizzato attorno alla città, con ampi marciapiedi e vaste prospettive urbane, dove i viennesi di tutte le estrazioni potevano mescolarsi liberamente nel loro passeggio della domenica pomeriggio. Per i riformatori viennesi dell’epoca, la qualità della vita civica era funzione della qualità dell’ambiente fisico. Gruen pensò quel principio applicato con identica chiarezza ai suburbi americani.
Non molto dopo la realizzazione di Southdale, Gruen pronunciò il discorso inaugurale alla cerimonia di premiazione del Progressive Architecture a New Orleans, e colse l’occasione per fustigare i sobborghi americani, le cui strade, disse, erano “vie dell’orrore”, “fiancheggiate dalla peggiore raccolta di volgarità – cartelloni pubblicitari, motel, stazioni di servizio, baracche, parcheggi, vari impianti industriali, chioschi di salsicce, negozi per clienti di passaggio – mai messa insieme a memoria d’uomo”. I suburbi erano il caos, e l’unica soluzione al caos era la pianificazione. Quando Gruen stese il primo piano per Southdale, collocò il centro commerciale nel cuore di un lindo quartiere di duecento ettari, che comprendeva case ad appartamenti, case unifamiliari, scuole, un centro medico, un parco e un laghetto. Southdale non era un’alternativa suburbana al centro di Minneapolis. Era il centro di Minneapolis come sarebbe stato se si fosse ripartiti daccapo correggendo tutti gli sbagli che erano stati fatti la prima volta. “Non c’è niente di suburbano a Southdale, tranne la localizzazione”, spiegò Architectural Record recensendo la nuova creazione di Gruen. Si trattava di
“un creativo distillato di quanto rende magnetico il centro città: varietà, individualità, luci, colore, anche la folla: perché la scala a misura di pedone di Southdale assicura attività e trambusto. Aggiunta a quest’essenza dei centri città esistenti, tutta una serie di cose che dovrebbero starci se i centri non fossero tanto rumorosi e sporchi e caotici: caffè sui marciapiedi, arte, aiuole verdi, una pavimentazione gradevole. Altri centri commerciali, anche gradevoli, sembrano provinciali in confronto al modello originale: il centro città. Ma a Minneapolis è la città ad apparire mediocre e provinciale se confrontata col carattere metropolitano di Southdale”.
Una persona che non sembrava abbagliata da Southdale, era Frank Lloyd Wright. “Cos’è: una stazione di treni o di autobus?”, chiese quando venne a farci un giro. “C’è un giardino centrale che ha tutti i difetti della strada di villaggio e niente del suo fascino”. Ma nessuno ascoltò più di tanto Frank Lloyd Wright. Quando si trattava di centri commerciali, era l’idea di Victor Gruen, a contare.
Il grande schema per Southdale non fu mai portato a termine. Non ci furono parchi, né scuole, né case ad appartamenti: solo quella grossa scatola in un mare di parcheggi. Né, con pochissime eccezioni, nessun altro si mise a progettare i centri commerciali come cuore di un lindo, denso, quartiere multifunzionale. Gruen aveva ragione riguardo agli effetti trasformanti del centro commerciale sul commercio. Ma nell’idea di poter replicare la lezione della Ringstrasse nei suburbi americani, aveva torto, e il motivo sta nell’improvviso cambiamento nella costruzione dei centri commerciali, a metà anni Cinquanta.
All’epoca di Southdale, i grandi centri commerciali erano una proposta difficile. Uno dei primi centri del dopoguerra fu Shopper’s World, a Framington, Massachusetts, progettato da un antico socio d’affari di Gruen ai tempi dei negozi sulla Fifth Avenue. Shopper’s World era una struttura aperta, su trentacinque ettari, con quarantaquattro negozi, seimila posti auto, e un grande magazzino Jordan Marsh di ventitremila metri quadrati: a due anni dall’apertura, nel 1951, il costruttore era in bancarotta. Un grande centro commerciale, semplicemente, costava troppi soldi, e ci voleva troppo tempo al costruttore per farli rendere. Gruen pensava al centro come cuore di un nuovo centro città accuratamente pianificato, perché credeva fosse l’unico modo in cui si potesse mai realizzare: pianificavi perché dovevi farlo. Poi, a metà anni Cinquanta, accadde qualcosa che ribaltò del tutto le tristi economie dei centri commerciali: il Congresso votò una radicale trasformazione delle regole fiscali riguardanti l’ammortamento.
Secondo la legge fiscale, se costruisci un edificio commerciale, o compri un macchinario per la tua fabbrica, o fai qualunque acquisto per i tuoi affari, si ritiene che quell’investimento si deteriori e perda qualche parte del proprio valore per usura e danneggiamento ogni anno. Come conseguenza, a un’impresa è consentito accantonare parte del proprio reddito, esentasse, per pagare il costo finale o rimpiazzare questi investimenti. Ai fini fiscali, a metà anni Cinquanta la vita utile di un edificio era calcolata in quarant’anni, e dunque un proprietario poteva dedurre un quarantesimo del valore del suo edificio dal suo reddito, ogni anno. Un nuovo centro commerciale da quaranta milioni di dollari, quindi, dava una detrazione da ammortamento di un milione di dollari. Quello che fece il Congresso nel 1954, nel tentativo di stimolare gli investimenti nell’industria, fu di “accelerare” il processo di deprezzamento per le nuove costruzioni. Ora, usando questa e altre scappatoie, un costruttore di centri commerciali poteva recuperare il costo del proprio investimento in una frazione del tempo necessario. Come sostiene lo storico Thomas Hanchett in un innovativo saggio sulla American Historical Review, il risultato fu una “cuccagna” per i costruttori. Nei primissimi anni successivi alla costruzione del centro, le deduzioni da ammortamento erano così grosse che il centro commerciale era – almeno sulla carta – in perdita. Il che portò con sé enormi benefici fiscali. Per esempio, in un articolo di prima pagina del 1961 sugli effetti dei cambiamenti nell’ammortamento, il Wall Street Journal descriveva il sistema finanziario di un investitore nel campo dei centri commerciali di nome Kratter Corp. Il ricavo dalle operazioni immobiliari del 1960 era di $ 9.997.043. Dedotte le spese operative e gli interessi calcolati in $ 4.836.671, si arrivava a un guadagno netto di 5,16 milioni di dollari. Poi veniva l’ammortamento, che arrivava a 6,9 milioni, e dunque il buon profitto della Kratter si era magicamente trasformato in una “perdita” di 1,76 milioni di dollari. Immaginiamo che voi foste uno dei cinque azionisti di Kratter. La politica dell’impresa era di distribuire quasi tutto il guadagno pre-ammortamento delle sue operazioni agli azionisti, e quindi la vostra quota di guadagno sarebbe stata circa di un milione di dollari. Normalmente, ne avreste pagato una bella fetta in tasse. Ma quel milione di dollari non era guadagno. Quel milione di dollari era “return on capital”, ed era esentasse.
Improvvisamente, era possibile fare molti più soldi investendo in cose come i centri commerciali che comprando azioni, e così il denaro si riversò nelle imprese di investimenti immobiliari. I prezzi salirono vertiginosamente. Gli investitori realizzavano edifici, cavandoci fuori quanto più denaro possibile con l’uso del deprezzamento accelerato, poi rivendendoli quattro o cinque anni dopo, e poi ancora realizzando edifici più grossi, perché più costoso l’edificio, più alta la somma dell’ammortamento.
In queste circostanze, a chi mai interessava se il centro commerciale avesse senso economico per i commercianti? I centri e gli insediamenti commerciali lineari divennero quello che gli urbanisti chiamano “catalizzatori”a significare che i costruttori non li realizzavano come servizi per comunità suburbane esistenti; si costruiva nelle frange urbane, oltre gli insediamenti residenziali, dove il terreno eera più economico. Hanchett segnala, infatti, che in molti casi la crescita del centro commerciale non sembra seguire alcuna logica demografica. Cortland, New York, per esempio, praticamente non cresce affatto fra il 1950 e il 1970. Ma in quei due decenni Cortland guadagna sei nuove piazze commerciali, compreso quello “chiuso” di Cortlandville Mall, 37.000 metri quadrati. Nello stesso arco di vent’anni l’area di Scranton perde settantatremila persone mentre guadagna trentun centri, dei quali tre “introversi”. Nel 1953, prima che fosse operativo l’ammortamento accelerato, negli Stati Uniti fu realizzato un solo grande centro commerciale regionale. Tre anni dopo l’approvazione della legge, il numero era salito a venticinque. Nel 1953, la costruzione di centri commerciali di tutti i tipi ammontava a un totale di 550.000 metri quadrati. Nel 1956, quella cifra si era incrementata del cinquecento per cento. Questa è anche l’epoca dei ristoranti fast-food, e Howard Johnson, Holiday Inn, dei vari negozi a basso prezzo che cominciavano a moltiplicarsi su e giù per le strade e viali dei sobborghi americani, e mentre crescevano questi insediamenti, altri se ne aggiungevano a dividersi il crescente traffico di clienti. I centri commerciali portavano altri centri commerciali, e i centri commerciali alle grandi catene dei solitari del commercio, come Wal-Mart e Target, e poi i “power centers” di tre o quattro commercianti “big-box”, come Circuit City, Staples, Barnes & Noble. Victor Gruen intendeva Southdale come una compatta e autosufficiente città. Oggi, a quindici minuti di “strada degli orrori”, c’è il Mall of America, il più grosso del paese, con cinquecentoventi negozi, cinquanta ristoranti, dodicimila spazi parcheggio, e ci si può facilmente immaginare che un giorno anche questo, possa lasciare posto a qualcosa di più nuovo e più grosso.
Una volta, a metà anni cinquanta, Victor Gruen si incontrò con un collaboratore della rubrica Talk of the Town, del New Yorker, per esporre il suo pensiero su come salvare la città di New York. L’intervista ebbe luogo nell’elegante ufficio di Gruen sulla Dodicesima West, in un vecchio edificio Stanford White, e ci si può immaginare il reporter estasiato, mentre Gruen si sporgeva in avanti con le sue sopracciglia ispide. Primo, disse Gruen, Manhattan deve liberarsi di magazzini e industrie leggere. Poi, tutto il traffico di superficie a Midtown (taxi, autobus, camion) deve essere convogliato in tunnel sotterranei. Chiedeva di mettere super-autostrade sul perimetro dell’isola, punteggiate da garages parcheggio su due piani. L’intrico di case popolari e residenze e condomini di Manhattan doveva essere rimpiazzato da semplici file di torri residenziali da centocinquanta piani, sistemate lungo nastri a giardino, parchi, percorsi pedonali, teatri e caffè.
Il Signor G. abbassò le sopraciglia e ci guardò di traverso: “Siete preoccupati per quei tunnel, è vero?” chiese. “Vi chiedete se c’è spazio per farceli stare, in quella giungla sotterranea di tubi e cavi. Non avete mai pensato a quanto sia assurdo seppellire sotto tonnellate di solido materiale da pavimentazione, quello che è destinato a andare il tilt, ogni tanto?” Saltò dalla sedia, e iniziò a manovrare un immaginario martello pneumatico sul levigato pavimento dello studio. “Rat-a-tat-tat!” esclamò. “Giorno e notte! Tira su le strade! Poi asfaltale! Poi strappale su ancora!”. Buttando da parte l’immaginario martello pneumatico, si gettò di nuovo sulla sedia. “Nella mia New York del futuro, tutti i tubi e i cavi saranno attaccati nella parte superiore di quei tunnel, sopra una passerella, accessibili agli operatori e verniciati in colori brillanti, per deliziare l’occhio anziché spaventarlo”.
L’America dell’immediato dopoguerra era un posto intellettualmente incerto, e c’era qualcosa di inebriante nella sofisticatezza e fiducia di Gruen. Fu questo a portarlo dal porto di New York, con otto dollari in tasca, a Bradway, alla Fifth Avenue, e alle vette di Northland e Southdale. Era un intellettuale Europeo, un emigrante, e nell’immaginario popolare l’emigrante europeo rappresentava immaginazione, il dono di vedere qualcosa di grandioso nella banalità della vita americana del dopoguerra. Quando l’Europeo visionario era posto di fronte a uno squallido e congestionato panorama urbano, non stava a cincischiare o dubitare: radeva al suolo i depositi, mandava sottoterra le strade, stendeva un eccitante piano per mettere a posto le cose. “Il mezzo principale di spostamento sarà camminare”, disse Gruen della sua re-immaginata metropoli. “Non c’è niente come camminare, per la tranquillità d’animo”. A Northland, diceva, migliaia di persone andavano, anche quando i negozi erano chiusi, solo per passeggiare attorno. Era proprio come la domenica sulla Ringstrasse. Con i centri commerciali, la Vecchia Europa era arrivata nei sobborghi di Detroit.
Quello che Gruen aveva, tra l’altro, era una incrollabile fede nella “piazza del mercato” americana. “I centri commerciali ci insegnano” disse una volta “che è il mercante che salverà la nostra civiltà urbana. Pianificazione non è una parola sporca per loro. Buona pianificazione significa buoni affari”. Continuava: “Qualche volta l’interesse personale ha notevoli conseguenze spirituali”. Gruen aveva bisogno di crederci, come molti altri intellettuali Europei dell’epoca, soprannominati da Daniel Horowitz “celebratory émigrés”. Erano fuggiti da un luogo di ansia e caos, e cercavano nella cultura del consumo americana un baluardo contro la pazzia di oltreoceano. Volevano trovare nel trambusto della piazza del mercato qualcosa di grande come la Vienna che avevano perduto: il posto dove l’inconscio era meticolosamente sezionato dal Dottor Freud sulla Bergstrasse, dove si costruivano altari alla civiltà europea – il Gotico, il Barocco, il Rinascimento, l’antica Grecia – sulla Ringstrasse. Per gli Americani, niente era più lusinghiero. Chi non voleva credere che il fatto di radere al suolo depositi e mettere sottoterra le strade non avesse conseguenze spirituali? Ma, alla fine, era troppo bello per essere vero. Questo non era per niente il modo in cui funzionava l’America.
Qualche mese fa Alfred Taubman [protagonista della parte di articolo tagliata, n.d.T.] ha tenuto un discorso ad una associazione di operatori immobiliari a Detroit, sulle prospettive per il centro città, e una delle cose di cui ha parlato è la Northland di Victor Gruen. Era, semplicemente, troppo grande, ha detto. Hudson’s, il grande magazzino “anchor”, all’epoca aveva già un negozio madre in centro a Detroit. Dunque perché mai Gruen aveva progettato un satellite di cinquantacinquemila metri quadrati a venti minuti di macchina? I satelliti davano il loro meglio su una superficie da quindici a ventimila metri quadri. Ad oltre cinquantamila erano grandi a sufficienza per contenere qualunque varietà di merce disponibile nel negozio madre, il che significava che nessuno avrebbe avuto più alcun interesse ad andarci. Victor Gruen diceva che la lezione di Northland diceva come i mercanti avrebbero salvato la civiltà urbana. Non valutava che, per il suo cliente, avrebbe avuto molto più senso salvare la civiltà a quindicimila, anziché a cinquantamila, metri quadri. La lezione dell’America è che anche la più grandiosa visione può essere deviata dal più banale dei dettagli, come la dimensione dell’esercizio commerciale o il fatto che il Congresso fissi l’indennità di ammortamento a quaranta o vent’anni.
Quando, ormai avanti negli anni, Gruen arrivò a capire tutto questo, per lui fu una profonda delusione. Rivisitò uno dei suoi centri commerciali, vide tutte le costruzioni che gli spuntavano attorno, a si dichiarò in preda a un “serio choc emotivo”. I centri commerciali, disse, erano stati sfigurati dalla “bruttezza e disagio del devastante mare di parcheggi che occupava il suolo” attorno ad essi. I costruttori erano interessati solo al profitto. “Mi rifiuto di pagare gli alimenti per questi quartieri bastardi”, disse in un discorso a Londra nel 1978. Se ne andò dal suo paese adottivo. Si era comprato una casa in campagna appena fuori Vienna, e ci andò ad abitare. Ma cosa trovò, una volta arrivato? Appena a sud della vecchia Vienna, era stato appena costruito un centro commerciale, nelle sue angosciate parole “un’enorme macchina da spesa”. Stava facendo fallire gli amati negozianti viennesi. Stava stritolando la vita della sua città. Gruen era devastato: aveva inventato il centro commerciale per fare l’America più simile a Vienna; aveva finito per fare Vienna più simile all’America.
Titolo originale: The terrazzo jungle – Fifty years ago, the mall was born. America would never be the same, The New Yorker, 15 marzo 2004 – Estratti e traduzione a cura di Fabrizio Bottinii