Le città assorbono e digeriscono di tutto, con un piccolo e ovvio particolare: alla fine della digestione e della metabolizzazione non sono più le città di prima. Non a caso si parla di città industriale, o di nucleo storico, o di sprawl, a indicare le varie forme assunte dall’insediamento urbano via via che si mangiava prima lentamente alcuni derivati professionali di civiltà contadina, a fungere da nodo di mercato, poi i capannoni della grande produzione e distribuzione di merci, poi l’automobile e tutti gli spazi, reti e impianti per farla diventare padrona della nostra vita. Proprio dentro a queste ultime reti, verso la metà del ‘900 inizia a crescere un nuovo genere di magazzino mercato per le merci, che si autobattezza prima shopping mall (per travestirsi un po’ da strada urbana), poi si specializza e articola, anche in formati piuttosto brutali che con la città abituale dichiarano di non voler aver nulla da spartire: il cosiddetto big box. Adesso tutti questi strani animali cercano di replicare su grande scala una migrazione già sperimentata in modo strisciante da certi loro cugini nel secolo scorso. E bisogna starci attenti.
Migrazione strisciante detta terziarizzazione e commercializzazione delle aree storiche delle città, che si tratti del centro antico all’europea, oppure del distretto o quartiere consolidato, magari un po’ degradato, ma che via via negli anni ha cominciato a ripopolarsi di esercizi e servizi a loro volta mutati, di solito con una offerta di fascia più alta rispetto a botteghe e studi di una volta. I quartieri delle griffe della moda, nei «triangoli d’oro» delle metropoli, o le versioni high street più nazionalpopolari che fanno gridare tanti critici alla città-clone, per via dei medesimi marchi che si allineano sui marciapiedi. Entrambi i modelli, quello più di lusso e quello popolare, hanno in comune il fortissimo impatto sul tessuto urbano. Magari non cambiano radicalmente le forme architettoniche o la planimetria dei quartieri, però oltre all’aspetto più vistoso delle facciate ricoperte di insegne, o ai flussi accresciuti di frequentatori almeno in certe ore e giornate, inducono ad esempio pedonalizzazioni totali o parziali, o l’impennarsi dei prezzi degli immobili che via via escludono tanti inquilini, abitanti e non.
C’è un altro effetto ancora più radicale, ed è quello sulle aree circostanti: cosa succede al traffico quando per favorire il passeggio lo si limita, devia, incanala verso direzioni diverse? cosa ne è degli abitanti o degli esercenti priced-out (termine orrendo ma che riassume benissimo la faccenda) dall’impennarsi a volte artificioso delle valutazioni immobiliari? come cambiano aspettative e comportamenti di tutti i soggetti coinvolti nelle trasformazioni, da chi inizia a convergere su quel luogo, a chi specularmente vede svuotarsi il proprio spazio perché tutti iniziano ad andare solo lì? Come se non bastasse, when the going gets tough the tough get going: adesso entrano in campo i pesi massimi, anche dal punto di vista della massa fisica unitaria. Oltre alla vistosa insegna, le grandi catene di distribuzione arrivano in città complete di relativo grande contenitore, un big box che ci arriva diritto in testa. Concettualmente nulla di nuovo, praticamente si, e molto.
Negli Usa un protagonista di questo formato scatolone suburbano, Target, programma l’ingresso nelle zone urbane dense, a partire dall’esperimento di Seattle dove debutta il cosiddetto downtown store. Il contenitore ha accettato di ridurre la propria mole complessiva di un terzo rispetto a quelli classici e sperimentati extraurbani; in nude cifre vuol dire una superficie commerciale di 8.000 (ottomila) metri quadrati e poco meno di 200 posti auto incorporati nell’edificio, anziché in un parcheggio/ciambella d’asfalto terra di nessuno. C’è da dire che non è mica tanto facile, per chi investe cifre enormi in un programma come questo, cambiare completamente modus operandi. Se un cliente attirato dall’insegna familiare o dagli spot pubblicitari andasse lì convinto di trovare la solita offerta di un punto vendita Target potrebbe andarsene deluso (e tener chiuso il portafoglio: la cosa peggiore per il commerciante). Deluso dopo aver scoperto che in meno spazio non si possono vendere le piscine da giardino, o certi set di tavoli e sedie, o barbecue di cemento, o le confezioni alimentari giganti che fanno risparmiare. Ciò perché Target è pure alla ricerca di un nuovo target con la T minuscola, il cliente urbano: stile di vita diverso, casa meno sterminata da riempire di oggetti, magari un’auto più piccola su cui caricarle, o addirittura nessuna auto. Chissà.
Il downtown store di Seattle apre insieme ad altri negozi gemelli di centralissimi ottomila metri e duecento posti auto a Chicago e Los Angeles, a cui seguono un altro a San Francisco e un punto vendita bis a Los Angeles (dove in effetti il concetto di centro è un po’ vago a dir poco). Target non è l’unica catena di big box a voler sperimentare la localizzazione urbana, ce ne sono altri, incluso il più grande dei grandi ovvero Wal-Mart. Si potrebbe dire, con tutte le riserve del caso, che il primo passo in avanti l’ha fatto lo scatolone, in termini propositivi, e il secondo l’hanno fatto le città che hanno considerato accettabile quel tipo di adattamento, alle proprie norme urbanistiche, alle previsioni del traffico, ai vantaggi e disagi per abitanti, creazione di posti di lavoro ecc. E sarebbe una battaglia persa in partenza, di retroguardia, qualunque visione poetico-fumosa del bel tempo andato. Chi sogna ancora una città commerciale ideale fatta di botteghe, bancarelle, negozietti tradizionali, proprio non calcola che: 1) quella città funzionava talmente bene che è virtualmente scomparsa, anche per insoddisfazione degli utenti; 2) anche i residui spazi che ancora funzionano in questo modo, riescono a farlo grazie alla rete (per esempio di servizi, ma non solo) dell’odiata distribuzione moderna, che ad esempio scarica traffico rendendo più accessibili certe vie e piazze.
Questo non significa però che la città del futuro debba diventare, tra i nostri applausi da consumatori lobotomizzati, una fotocopia rivista di certi ambienti suburbani fatti esclusivamente di arredo bagno, centro del fai da te, pizza express e il vivaio dello zio contadino. L’adeguamento merceologico, e anche dimensionale, forse non basta, forse per esempio anche quei duecento posti auto si potrebbe iniziare lentamente a toglierli, e magari sostituirli con qualcosa d’altro. Soprattutto è il contesto, non l’oggetto, a meritare attenzione. Una ventina d’anni fa un esponente molto noto della cultura new urbanism, il titolare del grosso studio di progettazione Clarion di Denver, proponeva alcune linee guida per «ammaestrare la scatola», tutte naturalmente concentrate nel suo rapporto con l’esterno, dalle facciate cieche da rendere un po’ meno cieche, ai deserto dei parcheggi da rendere un po’ meno deserto, eccetera.
Abbastanza ovvio che si debba andare oltre, e ragionare sugli impatti che riguardano il quartiere in senso lato: cosa c’è accanto al big box ridotto oggi; cosa potrebbe crescere o trasformarsi domani? che flussi potrebbero determinarsi? Ovvio che non serve a nulla ridurre, anche di molto più di un terzo, la superficie commerciale, se poi dall’altra parte della strada si insedia un altro scatolone a fargli concorrenza e attirare altro traffico, e richiamarne poi un terzo con offerte complementari … Per chi invece prosegue nel suo imperterrito – e piuttosto ottuso e masochista – no pasarán rispetto ai formati della distribuzione moderna in città, dovrebbe forse considerare la possibilità di non essere affatto un paladino di una città migliore, ma solo un distratto, che non sa proprio dove vive, come vive, perché le cose attorno a lui sono come sono. E che anche i suoi amici in fondo, anche senza rendersene conto, lo/la stramaledicono quando si scontrano davvero col quartiere tradizionale, quello vero e non quello sognato. Dove non si rilasciano scontrini, o non si trovano le cose che si cercano, magari molto urgentemente, o si perde una quantità spaventosa di tempo rodendosi il fegato, alto che città ideale. Guardarsi attorno serve, davvero.