Tutti travolti da certo neocontadinismo di ritorno che si ammanta troppo automaticamente di ambientalismo e progressismo, ci scordiamo che l’agricoltura urbana non ha di per sé alcuna caratteristica alternativa, salvo appunto quella assunta di recente rispetto al consumismo. Del resto, se diamo un’occhiata alla storia recente del ritorno in città delle colture, troviamo ad esempio certe idee autoritarie e antiurbane fasciste, dove nel concetto di «intercittà» (oggi forse qualcuno lo chiamerebbe città diffusa) si tentano di coniugare antiurbanesimo ufficiale di maniera, e generici tentativi di non perdere del tutto le radici contadine della nazione anche abitando in una condizione cittadina, con vantaggi anche economici e di salute per le famiglie operaie. Certo quella italiana tra le due guerre mondiali altro non è che la declinazione locale di una cultura internazionale cresciuta insieme al concetto di sobborgo operaio giardino, e che gli eventi bellici della Grande Guerra hanno rivestito di patriottismo su entrambe le sponde dell’Oceano, con i cosiddetti victory gardens.
Nel mondo industriale e urbano del secondo ‘900 le distese grandi o piccole a verdura dietro le case di periferia restano solo uno strascico nostalgico, anche se naturalmente resta l’apporto economico-alimentare, con le classiche cassette di verdure raccolte d’estate per farci conserve da far durare tutto l’inverno. Lo stesso modello più o meno vale per buona parte del mondo, tenersi un fazzoletto di terra zappato e piantato, residuale o no, non ha per diverse generazioni alcun contenuto ambientalista, o carattere politico, se non il vago conservatorismo di chi un pochino si rivolge sempre al passato rurale. Basta scorrere qualche ambientazione letteraria in questi luoghi, del tipo ad esempio che ci offre Tim Parks nel suo best seller internazionale Italian Neighbours, per confermare che eventuali contenuti di sinistra vadano cercati decisamente da un’altra parte. Poi, in tempi abbastanza recenti si è cominciato a parlare seriamente di contenimento nel consumo di risorse: meno carburanti di origine fossile per i trasporti, meno spreco di superfici metropolitane per funzioni che devono essere svolte a grandi distanze (l’insieme di queste due componenti crea le basi per la cultura del cosiddetto chilometro zero), e in più una migliore abitabilità, presenza della natura non troppo addomesticata negli spazi urbani, occasione di conoscenza e salute … E gli orti sono diventati di colpo un mito.
Ma restano sempre la stessa cosa di prima nella sensibilità di chi li coltiva da molti lustri, ovvero i classici pensionati o appassionati, anche quando vengono arricchiti da sovrastrutture ideologiche dell’ambientalismo contemporaneo, come dimostra ad esempio la guida Space for food growing pubblicata tempo fa dal Ministero britannico per le Aree Urbane del mastino tory ultraconservatore Eric Pickles. A ricordare a tutti se necessario, sia quanto la tradizione dell’orto e del giardino sia semplicemente radicatissima nella cultura inglese, sia quanto anche contenuti che riteniamo innovativi e progressisti, altro non siano che riformulazione di vecchie cose. Perché non c’è nulla di intrinsecamente progressista o che, nella considerazione che l’orto fa bene alla città, alla società, all’alimentazione, all’ambiente in generale, alla qualità dell’abitare, alla salute, alla cultura.
Con buona pace di certi fessacchiotti che magari ci stavano entusiasmando per le esperienze partecipative vagamente rivoluzionarie e postindustriali di Detroit, o al neotecnicismo sociale di Growing Food con l’idroponia e il recupero dei contenitori dismessi, o ancora la globalizzazione alternativa di Transition Town, dove ci si prepara alla crisi finale del crollo del capitalismo … Il medesimo movimento, che di progressista non ha mai avuto nulla, ce lo ritroviamo in una nota del manualetto di pugno del ministro Pickles, che consiglia di andare a chiedere a loro, eventualmente, qualche particolare su come si fa un orto. Altri particolari dalla pubblica amministrazione, per esempio su cosa è legale e cosa no, o come ci si possono far finanziare certe iniziative con valore sociale, didattico, di recupero ambientale, oppure come mescolare l’attività e gli spazi degli orti a cose complementari ma diverse. Sino al punto di farli diventare una versione gestita collettivamente del parco pubblico terzo millennio, con le panchine per gli anziani, i giochi dei bambini, lo slargo per spettegolare un po’.
Ricorda qualcosa? Certamente, a chi ha visto da vicino gli orti improvvisati dei nostri anziani, dove magari si sta un pomeriggio intero senza toccare un attrezzo, giocando a carte con gli amici, mentre sul viottolo passano quelli coi cani a scambiare due parole. Ecco: si può sperare che almeno quelle due parole siano di sinistra, perché al resto, a tutto il resto, è proprio difficile appiccicare un colore politico qualsivoglia. Certi contenuti vanno inventati ex novo, e declinati coerentemente, perché diciamocelo: né l’orto, né il farmers’ market, né la bicicletta, né le infrastrutture verdi o le energie rinnovabili sono di sinistra. Quello possiamo diventarlo, o cercare di restarlo, noialtri. Il resto sono balle.
Riferimenti:
UK Department of Communities and Local Government, Space for Food Growing: a Guide, 2012