Well I dreamed I saw the silver space-ship flyin’
In the yellow haze of the sun
(Neil Young, After the Gold Rush, 1970)
Nel 1967 si pubblica in Italia, con il suggestivo titolo Le guide del tramonto, la traduzione del racconto Childhood’s end, di Arthur C. Clarke. La storia narra di grandi astronavi d’argento, che scendono sulla terra per guidare l’umanità – come accenna il titolo originale – fuori dall’infanzia, verso una nuova era. Contemporaneamente, e con scopi più o meno simili, un’altra «astronave» è atterrata, stavolta nella nostrana pianura bergamasca: un monumento di calcestruzzo battezzato Il Missile guida i primi automobilisti di massa italiani verso Zingonia, la città del futuro. E’ una porta aperta su un mondo nuovo, a portata di mano, per pionieri in pantofole che vogliono iniziare una nuova vita all’ombra del missile, tra abitazioni confortevoli, fabbriche avveniristiche, servizi quasi impensabili altrove. Il tutto senza affrontare viaggi pericolosi verso pianeti lontani, ma soltanto spostandosi in uno spazio quasi vuoto della pianura bergamasca. Su una carta dell’epoca, poco a est del fiume Adda e a sud del tracciato autostradale Milano-Venezia, il Missile se ne sta al centro di un territorio diviso tra cinque piccoli comuni rurali, ad aspettare i nuovi arrivi, gli abitanti della nuova città.
A dire il vero l’idea di «città nuova», anche e soprattutto in Italia, ha una lunga e consolidata tradizione, ma stavolta dietro al Missile c’è una inedita forma organizzativa, la crescente potenza della comunicazione pubblicitaria e degli uffici stampa. Last but not least, l’idea allo stesso tempo nuova e tradizionale di «città del futuro» trova un terreno particolarmente fertile nell’ambiente sociale degli anni Sessanta, generalmente sensibile all’innovazione, alla più o meno consapevole rottura con gli schemi tradizionali, alla più o meno superficiale fiducia nelle immagini del «progresso», e allo stesso tempo poverissimo degli «anticorpi» che solo i decenni successivi, di abitudine al bombardamento mediatico, renderanno possibile sviluppare.
Oltre gli elementi di innovazione organizzativa e pubblicitaria, la città nuova di Zingonia usa a man bassa la solida tradizione dell’utopia urbana di epoca industriale: simboli inequivocabili, messaggi semplificati, vari livelli di lettura possibili, da quello dell’uomo comune a quello dell’intellettuale e/o potenziale investitore. Il prototipo di questa forma comunicativa sono i Tre magneti di Ebenezer Howard, che con una serie di diagrammi facilmente leggibili sul finire del secolo scorso delineano una possibile «terza via» tra l’inferno paleotecnico della metropoli industriale e la salubre ma rimbecillente placidità della vita rustica. In anni e luoghi più vicini ai nostri, «irridendo al blasfema della teoria naturalista della origine e dell’autonomia dei comuni, il Regime non attende il formarsi spontaneo degli aggregati, per riconoscerli, ma fonda esso stesso città là dove redime la terra» (Ortolani, 1938, p. 644). Le città nuove dell’Agro Pontino, nel senso strettamente connesso alla costruzione dell’immaginario collettivo, «comunicano» molto più attraverso i filmati Luce sulla trebbiatura, con Mussolini a torso nudo, di quanto non facciano sulle pagine patinate di Architettura le torri littorie piantate al centro della pianura semivuota.
Ovviamente e notevolmente più vicine alla sensibilità contemporanea, le forme di comunicazione del New Deal americano dispiegano in pieno i potenti mezzi della civiltà automobilistica e televisiva: con le distanze accorciate dalle autostrade, la pubblicità dei nuovi insediamenti promossi o sostenuti dalle politiche riformiste sbarca su grandi cartelloni stradali, che indicano luoghi lontani ma a portata di mano, mischiando elementi umani, geografici, architettonici in forme inedite. Zingonia eredita tutto questo, ed insieme introduce, almeno nel nostro paese, un elemento nuovo, che nei decenni successivi diventerà, dai dépliants a colori alle televendite notturne di seconde case, una peculiare forma di ideologia antiurbana: l’invito a lasciarsi alle spalle la metropoli pericolosa e congestionata, per trovare – fatalmente «immerso nel verde» – un nuovo modello di vita fornito «chiavi in mano». Con una particolarità: le città italiane non sono, e men che mai negli anni Sessanta, i luoghi terribili che alcune forme pubblicitarie, prese forzatamente a prestito da altri contesti culturali, presentano. In più, giudizi qualitativi a parte, l’italica «fuga dalla città», complici anche gli operatori del settore, si traduce il più delle volte in una blanda suburbanizzazione, o in una diffusione insediativa che recupera per molti versi, anche se secondo forme nuove, il recente passato contadino nazionale. Resta, il percorso evolutivo della critica sociale alla città così com’è, di cui le progettualità pubbliche e private si sono storicamente fatte portatrici, e di cui il caso di Zingonia rappresenta una tappa interessante, una questione per molti versi ancora aperta, un aspetto forse meno noto di quanto meriterebbe. Questo percorso sociale, culturale, tecnologico, economico, non è ovviamente né semplice, né lineare. Le note che seguono intendono restituirne alcuni elementi e spunti di riflessione.
Immagini di città
I mass-media tendono a secondare il gusto esistente
senza promuovere rinnovamenti della sensibilità …
Omologando quanto è stato ormai assimilato
svolgono funzioni di pura conservazione
(Umberto Eco, Apocalittici e integrati, 1964)
All’inizio degli anni Cinquanta del nostro secolo, urbanisti e organi di governo italiani si sbilanciano annunciando gli orizzonti futuri della pianificazione regionale. Tecnici, amministratori e politici in un futuro immediato non dovranno più consumarsi gli occhi sulle planimetrie di qualche quartiere, o centro cittadino, ma lavorare direttamente sulle pagine dell’Atlante usato a scuola dai loro figli, per decidere le linee di sviluppo futuro della Lombardia, della Campania, delle Marche … Naturalmente e come in altri casi, questa è solo un’intenzione, che la realtà dei fatti si incaricherà presto di ricondurre alle sue dimensioni concrete (un volume e una mostra), ma il semplice fatto di sollevare un problema rappresenta per molti versi un enorme passo in avanti, un possibile strumento nuovo di lettura.
Una parte consistente dei giovani convenuti al congresso INU di Venezia del 1952, dedicato appunto alla pianificazione regionale, non poteva certo ricordare quando, verso la metà degli anni Venti, in Italia e nel resto del mondo «occidentale» si discuteva della nuova dimensione dell’impresa industriale, della velocità potenziale dei trasporti e delle comunicazioni, e della corrispondente necessità per gli organi di governo centrali e decentrati di misurarsi alla pari con questa situazione. Le risposte tecniche, culturali e politiche a quel tempo erano state varie ed eterogenee: simili nel loro essere condizionate dalle dimensioni transnazionali della tecnologia e dell’organizzazione di impresa; diverse a seconda dei sistemi sociali in cui si collocavano. Si andava dal volontarismo empirico del piano regionale di New York, alle forme di decentramento burocratico partecipativo dell’area parigina, sino alle forme più tecnocratiche e accentratrici della regione della Ruhr e del Governatorato di Roma (Testa, 1933). Oltre le modalità di declinazione del problema, comunque, i riferimenti progettuali e di politiche di intervento rinviavano più o meno consapevolmente alle forme di insediamento proposte verso la fine del secolo XIX come «terza via» fra grande città compatta e decentramento insediativo puro, ben riassunta dal vincente slogan della Città Giardino.
Carlo Doglio nel suo intervento al dibattito sulla pianificazione regionale osserva che «L’Italia, certo, è un paese eminentemente agricolo: ma … si va ormai, e giustamente, verso un vero e proprio decentramento delle industrie: certo occorre contrastare una frammentazione antitecnica, risultato di tradizioni soltanto artigianali, ma sta di fatto che …. i cittadini, le donne, e gli uomini, non sono l’ultimo elemento al piano, ma il primo. Non devono essere oggetto, ma soggetto del piano» (Doglio, 1953, p. 453). Se non altro per la contemporaneità della riflessione, è certo che questi giudizi sul decentramento, sul rapporto città/campagna/industria/società si intrecciano con quelli che Doglio ha sviluppato sulla questione specifica della città nuova, nella su più nota forma di Città Giardino: messaggio ecumenico e ambiguo, aperto già all’origine (forse consapevolmente) a distorsioni e fraintendimenti.
E’ del 1953 la pubblicazione del noto saggio di Doglio (riproposto poi in altre versioni) L’equivoco della città giardino, dove in forma documentatamente provocatoria si eviscerano fatti e misfatti del successo di un’idea, e del suo esatto contrario, sotto lo stesso marchio. Come ha sperimentato qualunque studente di discipline territoriali alle prime armi, la semplice enunciazione del termine città giardino evoca automaticamente le immagini positive che i due termini antitetici compongono, a partire dall’esperienza e dalle reazioni degli ascoltatori. Il successo della denominazione, non significa ovviamente successo dell’idea originaria, e nemmeno successo di una sua evoluzione determinata dall’apporto positivo di contributi culturali accumulati nel tempo. Doglio, sviluppando la sua prospettiva critica all’inizio degli anni Cinquanta, ne conclude che:
- l’idea della città giardino è positiva, ma l’impostazione con cui Howard la presenta e sviluppa ne riduce le potenzialità effettive;
- la riduzione e semplificazione operata da Howard è il veicolo ideale per operatori senza scrupoli, che intendono usare le suggestioni comunicative dell’utopia per fini assolutamente opposti o diversi;
- le reazioni degli arguti «specialisti» alle implicite deviazioni del programma originario, mancano sia della potenzialità comunicativa del progetto, sia della sua elasticità antistatalista e antiburocratica.
Conclude il suo impianto comunicativo, Doglio, confermando le potenzialità di fondo dell’idea di città-giardino così come concepita e divulgata agli albori del secolo, purché l’iniziativa di insieme sia mirata a realizzare «la pianificazione di unità organiche e autosufficienti» (Doglio, 1995, p. 117), dal punto di vista socioeconomico, amministrativo, territoriale e di integrazione, ben oltre la semplice immagine ideologica della città nuova di fondazione, o il quartiere suburbano a bassa densità, o una versione aggiornata della company town, mascherata dalla nuova dimensione territoriale dei processi insediativi. Del resto, Doglio nel suo saggio ricorda che l’apporto effettivo di Ebenezer Howard, per molti versi può essere ricondotto ad un ruolo di amplificatore mediatico e mediatore di interessi scientifici e sociali, come in parte suggerisce la biografia del personaggio. La seconda metà dell’Ottocento inglese, come puntualmente ma forse meccanicamente ricordano molti altri autori, è costellata di contributi interdisciplinari sul tema della città nuova, ma Doglio non ha esitazioni nel recuperare con particolare evidenza il contributo del geografo anarchico russo Ptr Kropotkin, che negli stessi anni in cui matura l’idea della città giardino pubblica alcuni pamphlets molto diffusi negli ambienti riformisti anglosassoni, tra cui vale la pena forse ricordare Fields and Factories, in cui l’idea di insediamento diffuso, integrazione agro-industria, autogoverno e partecipazione locale ai processi di modernizzazione assumono forma sicuramente «utopica» se commisurate ai rapporti sociali consolidati, certamente «realistiche» al limite della banalità se l’idea di decentramento produttivo e decisionale viene letta nei termini che ci sono abituali, almeno dagli anni Settanta di questo secolo.
In sintesi, il portato delle riflessioni di Kropotkin, e dell’attualizzazione che ne fa Doglio, è: che senso ha ipotizzare un indeterminato «decentramento», e sostenerlo con ingenti risorse pubbliche, se i termini del nuovo modello insediativo sono modellati sulle esigenze particolari e di breve periodo del capitale privato? E, anche oltre le ipotesi «rivoluzionarie» che un percorso di riflessione di questo tipo in qualche modo evoca, non è forse il caso di pensare ad una lettura meno supina dell’idea di città giardino, così come la pubblicistica più o meno specializzata ce l’ha tramandata da quasi un secolo?
A ben vedere, come ampiamente ha dimostrato l’esperienza italiana e internazionale in materia di «città giardino», gli schemi originari di Ebenezer Howard, indipendentemente dalle intenzioni del loro autore, hanno generato nella maggior parte dei casi idee di insediamento con un basso contenuto sociale, un inesistente contenuto politico, un piccolo contenuto di innovazione tecnica, veicolato e amplificato dal suggestivo slogan. Nelle città italiane del primo sviluppo industriale, in età fascista, la città giardino come vaga categoria dell’immaginario inizia a generare i suoi sottoprodotti in termini di lottizzazioni private, a villini, con qualche vera o presunta pretesa di dignità architettonica, e più raramente con declinazioni locali di progettazione urbanistica a livello di quartiere.
Ma, anche se nascoste tra le pieghe del tecnicismo e della semplificazione, le istanze riformiste profonde della città giardino riescono in qualche modo a fare paura a chi vede come fumo negli occhi la partecipazione sociale attiva ai processi decisionali. Non è un caso se, tra i primi atti del regime fascista nell’area milanese, c’è lo scioglimento della società cooperativa per la città giardino, con le sue pur limitate possibilità di costruire un sistema di autogoverno locale, anche in assenza dei requisiti minimi di sostentamento socioeconomico (insediamento produttivo ecc.).
Come alternativa all’ormai transustanziata e tradita immagine della città giardino, inizia negli anni di esordio dell’economia dei grandi spazi ad imporsi, anche dal punto di vista lessicale, l’idea di «città nuova», probabilmente per una sua vera o presunta maggiore elasticità interpretativa, che soddisfa via via le necessità dell’impresa, quelle del potere accentrato alla ricerca di immagini forti di legittimazione, e infine il dibattito multidisciplinare delle sempre più numerose competenze che sono – o aspirano ad essere – coinvolte nella progettazione dei nuovi simboli di progresso.
Il miracolo comunicativo che gli schemi di Ebenezer Howard avevano realizzato con l’idea di città giardino, si ripete in Italia con le città di fondazione tra gli anni Venti e Trenta, sia negli aspetti positivi, che in quelli negativi e contraddittori. Oltre la rilevanza tecnica e organizzativa della bonifica, della costruzione ex novo e con metodi sbrigativi di una vera e propria società locale, oltre anche i concreti elementi figurativi architettonici dei nuovi spazi, emerge soprattutto l’amplificazione del messaggio, la sua articolazione per competenze e livelli di conoscenza, in cui quella che comunemente viene denominata «retorica fascista» spesso non è altro che il linguaggio corrente radiofonico o da comizio di paese. «in una domenica allietata da un cielo limpido e da un sole veramente primaverile, la campana della torre di Littoria suonando a festa, annunziava che una regione già tristemente nota per il suo squallore e per la sua inospitalità stava per essere interamente risanata e restituita a nuova vita» (Bellandi, 1933, p. 677). Così, L’Universo, austera rivista dell’Istituto Geografico Militare, apriva un articolo di carattere storico-tecnico sui rilievi topografici connessi alla bonifica. E a ben vedere nell’immaginario dell’epoca l’idea delle città nuove è soprattutto questo, molto oltre il pur ricco e polemico dibattito specialistico che contrappone architetti, economisti agrari, urbanisti e varie lobbies professionali. L’azione pubblica su larga scala, ulteriormente amplificata dalle forme di comunicazione e pubblicità, è stato notato, mirava soprattutto a rassicurare i cittadini, per dar loro modo di guardare al futuro, anche al futuro lontano, «with unbridled confidence and a sure sense of govermental longevity» (Ghirardo, 1989, p. 5). E ciò vale non solo per la più o meno «retorica» Italia fascista, ma per la democraticissima e riformista America di Roosevelt, dove le forme più complesse e avanzate di sviluppo socioeconomico arricchiscono la questione di almeno due elementi chiave: il ruolo dell’apparato produttivo industriale e gli interessi dei privati nelle forme di insediamento.
Uno degli elementi volutamente messi in ombra dalla «retorica fascista», con la sua centralità di intervento statalista, ruralista, è il ruolo (ancora potenzialmente, per l’Italia dell’epoca) cruciale dell’industria nel determinare, dalla scala locale a quella regionale e oltre, modi e forme dell’insediamento. Il dirigismo che almeno superficialmente caratterizza anche il dibattito ufficiale su questi temi non nasconde, almeno agli studiosi più attenti, le tendenze che in Europa e negli Stati Uniti si vanno affermando negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale. La company town ottocentesca, con tutte le sue varianti utopistiche o paternalistiche, è un modello abbondantemente tramontato, e ora anche a grande scala i processi di insediamento e reinsediamento sono una complessa forma decisionale, in cui gli interessi dell’impresa devono trovare una sintesi con quelli collettivi, a loro volta articolati orizzontalmente per settori (residenza, servizi, ambiente ecc.), e verticalmente per scale di intervento (governo regionale, locale, associazioni ..). I processi decisionali dell’impresa, quando si tratta della sua collocazione territoriale e del ruolo nella costruzione dello spazio urbanizzato, evidenziano quello che Francesco Mauro nel 1944 definisce «Polimorfismo del soggetto» (Mauro, 1944), ovvero la diversificazione ed elasticità interna dell’impresa industriale, cui deve corrispondere un altrettanto adattabile sistema di governo e contrattazione. L’esatto opposto, pur con qualche sfumatura, di quanto la cultura urbanistica nazionale aveva sino a quel momento modellato e istituzionalizzato, dalla bonifica integrale, alle città di fondazione, e infine alle leggi sul decentramento industriale e urbanistica.
Con la fine della guerra e la caduta del fascismo, le forme complesse della conflittualità che la patina «corporativa» aveva attenuato, iniziano a riemergere. L’idea di città nuova è decisamente offuscata dall’ansia della ricostruzione, anche se molto si dibatte sui modi e le forme di questa ricostruzione: «le nuove prospettive di sviluppo sociale, stimolano una diversa creatività, un diverso rapporto tra urbanistica ed istanze emergenti, un diverso modo di recepire il senso morale, sociale, politico della disciplina» (Ernesti, 1990, p. 83). Un nuovo senso che però non impedisce il permanere di una cultura dirigista del piano, in cui le forme di decentramento o accentramento vengono giudicate soprattutto in base alla loro «organicità», e solo eventualmente e in seconda battuta analizzate nelle tendenze reali e nelle motivazioni. E’ in questo ambiente che inizia a svilupparsi il dibattito sui modi dello sviluppo, sulla politica industriale e della casa, sui nuovi quartieri e le città satelliti.
Fabbrica e società
Si prosegue nella pianura coltivata
sparsa di villaggi dai campanili
sormontati da statue di santi
(l’area che diventerà Zingonia, nella descrizione del Touring Club, 1954)
Quello che abbiamo definito «dirigismo» della cultura urbanistica non è, esclusivamente e necessariamente, retaggio dello stato totalitario, né specificità italica. Lo stesso Francesco Mauro, che studiando la realtà americana di dispersione e concentrazione insediativa aveva presentato un panorama inedito di complessità, centri e forme decisionali, nel suo approccio alla realtà dello sviluppo italiano e della modernizzazione postbellica sembra lasciare qualche spazio in più a un ruolo forte dell’operatore pubblico nelle scelte di programmazione. Riguardo soprattutto alle aree del Mezzogiorno, si individuano come soggetti prioritari per incrementare i ratings di attrattività delle aree i grandi enti dello Stato (ferrovie, banche pubbliche), ma anche nelle aree del futuro Triangolo le proposte di decentramento e rilocalizzazione industriale e residenziale preludono comunque a una notevole (e probabilmente non corrispondente alla realtà) capacità di governo dei vari livelli dell’amministrazione (Mauro, 1948).
Anche nella tradizionalmente democratica Gran Bretagna, culla e patria del moderno planning, alcuni approcci della cultura urbanistica ai temi di rinnovo dell’assetto territoriale sono esplicitamente accusati di dirigismo, megalomania, e visto l’oggetto del contendere di strisciante incompetenza. La stessa idea di decentramento e decongestione, apparentemente consolidato obiettivo di qualunque piano, quando interessa in un breve lasso di tempo vasti territori, popolazioni, settori e destinazioni, perde molto del suo fascino se verificata nell’ambito di una corrente amministrazione, ovvero in un contesto molto diverso da quello emergenziale che all’inizio del secolo aveva generato la città giardino di Howard, la cultura regionalista di Patrick Geddes, la sistematizzazione e divulgazione disciplinare di Raymond Unwin. Ora, con l’avvio della ricostruzione nazionale pianificata, dei programmi di sviluppo territoriale e di costruzione delle new towns, gli urbanisti sono in una posizione di potere, forse troppo accentuata: «Winning a peace can be far more tricky than winning a war» (Sinclair, 1949, p. 233). La dogmatica, forzata, falsa automatica opposizione dialettica tra accentramento e dispersione insediativa, rischia di vanificare i pur lodevoli sforzi dei planners, che forse investiti di troppo potere mettono in atto con una certa disinvoltura (e con poche forme di negoziazione e controllo sociale) schemi di sviluppo destinati a durare per secoli: «Can the Howard pre-motor-car greenery … and the Abercrombie “humanised monster town” all fit together in the same world without stultifying one another?» (Sinclair, 1949, p. 235). Come osserva un articolo per il centenario di Ebenezer Howard, la cultura della pianificazione, faticosamente nata e sviluppata in un vigoroso bambino, rischia crescendo di trasformarsi in un orrendo ipertrofico mostro se non si sviluppano alcuni elementi di guida esterni: conflitto interdisciplinare, controllo sociale, partecipazione popolare alle decisioni (Macfayden, 1949).
A differenza di quanto avvenuto in Italia coi primi vagiti di città nuova o di quartiere satellite, la cultura britannica – oltre le inevitabili quanto trasparenti polemiche – sembra aver metabolizzato l‘idea del piano-processo, almeno alla scala decisionale che implica scelte strategiche, con rilevanti investimenti pubblici, e tali da innescare trasformazioni lente, elastiche, e nello stesso tempo contenere le aspettative dei molti soggetti sociali che, a vario titolo, auspicano una più rapida e compiuta tangibilità dei risultati. Osserva Frank Schaffer, Segretario della Commissione per le new towns, che i tempi di interazione, progetto, attuazione, sono certo molto lenti, che la ricerca dei siti basata su dati scientifici, la negoziazione con le autorità locali, la formazione di una development company, per non parlare degli aspetti concernenti la creazione di posti di lavoro, gli incentivi alla allocazione di imprese, gli impatti con gli equilibri precedenti, appaiono per quello che sono: un processo contraddittorio di conflitto sociale, economico, istituzionale. Ma anche in questo caso«democracy cannot be hurried» (Schaffer,1972, p. 15), e chiunque si metta in testa di costruire una città (non un quartiere dormitorio, o una lottizzazione industriale) deve mettere nel conto un processo lungo e conflittuale, e prevedere anche radicali mutamenti nell’impostazione iniziale.
La realizzazione in tutto o in parte delle opere infrastrutturali, degli edifici, dei servizi, in questo senso rappresenta solo un «physical framework» per la vita quotidiana, che dovrà essere riempito dal sistema di interazione sociale che solo il tempo e la capacità adattiva del modello iniziale possono garantire. La particolare delicatezza di ruolo della società locale, e degli strumenti finalizzati a promuoverne lo sviluppo, è ben riassunta da alcune lapidarie precisazioni: «The organization responsible for building a new town is the development corporation. … The corporation is not a Crown body. … Nor is the corporation the local authority» (Schaffer, 1972, p. 53). In altre parole, nessuno delega niente, salvo quanto non risponde alle proprie necessità immediate, e anche gli organismi pubblici non sono sufficienti a garantire una evoluzione lineare dei propri progetti, che in qualche modo vengono affidati al sistema complesso dell’interazione conflittuale tra capitale, lavoro, politica ai vari livelli.
Il successo critico italiano delle new towns britanniche, oltre i più evidenti aspetti strettamente architettonici, si allaccia al lungo dibattito sui temi del decentramento produttivo, e della improrogabilità di scelte esplicite di governo, non necessariamente legate ad una impostazione «di sinistra» delle linee di sviluppo. Si sottolinea come, anche dopo la crisi dell’esperienza di governo laburista, il programma generale delle città nuove, inizialmente criticata dalle destre come insostenibile per le finanze pubbliche, sia stato proseguito sia per evitare contraccolpi sociali, sia perché la cultura dei planners britannici era consolidata, istituzionalizzata, ormai lontana mille miglia da qualunque possibilità faziosa: « il fenomeno del sovraffollamento dei grandi centri urbani prendeva proporzioni sempre più grandi, il governo conservatore ha ritenuto di dover riprendere l’attuazione del vecchio programma urbanistico» (Gentileschi, 1965, p. 441). Ma oltre le difficoltà sociali di adattamento, costruzione di identità, conflitti con le società tradizionali preesistenti, impatto ambientale dei nuovi insediamenti, si iniziano a riconoscere le linee evolutive del processo di integrazione e crescita, il ruolo degli enti di sviluppo pubblici, le iniziative che i gruppi di pressione locali iniziano a mettere in campo. Anche con tutti gli sforzi di pianificazione e animazione articolati tra vari livelli di governo e organizzazioni, il senso comune insegna che «inserirsi in un nuovo ambiente è sempre difficile» (Gentileschi, 1965, p. 456).
Quando l’iniziativa di Zingonia consolida la sua visibilità a livello nazionale (e potenzialmente, come le città pontine, internazionale), c’è chi, più attento agli elementi di percezione sociale che ad una considerazione strettamente disciplinare degli elementi a disposizione, la colloca in una possibile famiglia di «città nuove», che in momenti storici non meglio precisati sarebbero «sorte in altri Stati» (Della Valle, 1967, p. 215). L’unico esempio citato, comunque, è quello più immediatamente tangibile delle new towns inglesi. Dopo una descrizione della natura prevalentemente pubblica e sociale del programma anglosassone, a cui sin dal titolo Zingonia è accostata, l’autore italiano improvvisamente vira: «qui ci si trova di fronte ad una realizzazione nella quale non ha alcuna parte, per ora almeno, l’iniziativa statale, ma la cui nascita è dovuta unicamente allo spirito creativo di un privato e di un organismo finanziario da lui animato» (Della Valle, 1967, p. 215-216). Comunque si voglia giudicare questo approccio «critico», va sottolineato che il progetto (soprattutto comunicativo, abilmente gestito dagli uffici stampa dell’immobiliare) di una «città nuova» italiana negli anni di consolidamento dello sviluppo economico ha raggiunto il suo scopo: far parlare di sé anche all’interno del dibattito scientifico istituzionalmente legittimato.
Le riviste culturalmente e tecnicamente più autorevoli sul tema della città e del territorio, per tutto il periodo della ricostruzione e della successiva, cosiddetta «ideologia del quartiere», tentano di presentare un panorama verosimile di quanto sta accadendo, in Italia e altrove, nel campo dell’architettura e dell’urbanistica. La verosimiglianza di questo panorama, però, come è ovvio, risente fortemente (e ancor più risentirà negli studi successivi su questo periodo) di alcuni condizionamenti culturali e professionali, legati all’area operativa e di ricerca dei gruppi che direttamente o indirettamente hanno accesso alla pubblicistica specializzata. Acquistano così straordinaria visibilità e automatica legittimazione molti progetti e realizzazioni che a ben vedere hanno in comune molto poco, sul versante del contesto, dei condizionamenti, degli obiettivi. Ad accomunarli secondo linee di lettura omogenee, il più delle volte solo l’area culturale di riferimento dei progettisti.
Come contrappunto a questa estrema visibilità e legittimazione, le trasformazioni del territorio italiano seguono vie diverse, ignote solo a chi fa esclusivo riferimento (e continuerà a farlo per decenni) alle pagine patinate delle riviste cult. Il caso di Zingonia, in modo del tutto autonomo, riesce per un breve periodo ad uscire dal relativo anonimato, che certo non merita. L’attività della Z.I.F. (Zingone Iniziative Fondiarie), era iniziata con la progettazione e realizzazione, verso la fine degli anni Cinquanta, di un quartiere residenziale nell’immediata periferia milanese, a Trezzano sul Naviglio. Renzo Zingone, proprietario della Banca Generale di Credito e quindi osservatore privilegiato dell’emergere di alcune, particolari esigenze dei piccoli e medi operatori immobiliari, acquisisce un’area agricola di grandi dimensioni, a una distanza relativamente grande da Milano, con problemi relativamente grandi in termini di urbanizzazione, scala del possibile intervento, tempi di recupero degli investimenti. Questo si traduce, immediatamente, in un basso prezzo dei terreni. In più, l’agricoltore disposto a vendere si ritiene «penalizzato» dall’essere i terreni di sua proprietà interessati da un progetto che renderà difficile la normale gestione dell’azienda: una strada a molte corsie e scorrimento veloce di collegamento tra Milano e Vigevano.
Il rapporto con una amministrazione comunale debole, con un apparato tecnico commisurato alla sua natura di centro agricolo, faranno il resto: è l’esordio del progetto urbanistico «chiavi in mano», un enorme salto di qualità rispetto alla lottizzazione che a quel tempo «consisteva nel costruire una strada e nel vendere i terreni prospicienti, previo frazionamento» (Airaldi, 1980, p. 70). In più, l’offerta non riguarda solo spazi residenziali, ma anche insediamenti produttivi artigianali, che indirettamente contribuiscono ad aumentare la domanda insediativa nei terreni non ancora edificati. A modo suo, è un’idea di «quartiere organico» difficilmente contestabile. Così come, a modo suo, il quartiere Zingone è emblematico dell’approccio privatistico alla «ideologia del quartiere», l’iniziativa di Zingonia con un notevole salto di qualità tenta di meritarsi un ruolo di punta nel prefigurare la versione italiana della new town. Ma là dove la logica del piano-processo anglosassone trovava logico procedere gradualmente, secondo lo slogan democracy cannot be hurried, evidentemente la corsa al futuro dello sviluppo italiano è troppo impetuosa per essere rallentata da questi dettagli.
La nuova città è pensata a cavallo tra i territori di cinque comuni rurali nella pianura tra l’Adda e Bergamo: Osio sotto; Boitiere; Ciserano; Verdellino; Verdello. Nonostante il tipo di insediamento e il contesto socioeconomico «depresso», il comprensorio si colloca lungo un asse di sviluppo privilegiato, da Milano verso Est, servito da autostrada, ferrovia, un probabile prolungamento delle «Linee celeri dell’Adda» (trasporti regionali su rotaia) e una relativamente fitta rete stradale interregionale e di servizio. In più, dal 1962 è approvato e considerato di pubblica utilità (legge 13.10.62, n. 1485) uno dei grandi progetti di navigazione interna padana: l’idrovia Ticino-Milano Nord-Mincio, con le articolazioni di collegamento con i laghi di Como, Iseo e con Verona. Basta guardare la mappa del tracciato previsto per notare come il comprensorio di Zingonia corrisponda quasi esattamente al «nodo» autostradale, ferroviario, e della prevista area portuale Bergamo-Dalmine: nel piano di lottizzazione, defilati a Nord-Ovest rispetto alle zone industriali e residenziali, sono visibili e vistosi i canali e i moli del porto. Anche altri grandi progetti urbanistici, negli anni precedenti, sono stati innestati sull’asse di sviluppo territoriale definito dalle linee di navigazione: dalle «Quattro città satelliti» attorno a Milano del 1938, al più noto Piano A.R. del 1946, firmato tra l’altro – per le questioni di localizzazione industriale – da Francesco Mauro.
Area «depressa» negli anni Sessanta significa almeno due cose: una società locale tendenzialmente debole (dal punto di vista p. es. del mercato del lavoro, ma anche da quello della capacità contrattuale delle istituzioni), e un sistema di agevolazioni ed esenzioni tributarie per l’insediamento produttivo. E’ soprattutto il secondo elemento, il maggior fattore di attrattività per un investimento di queste proporzioni, quello che consente il salto di qualità (o di quantità) rispetto al quartiere Zingone di Trezzano. Riassunto in cifre, il progetto (dati aprile 1965) prevede: 846.000 mq per la grande industria e 1.466.000 per la piccola e media; 780.000 mq destinati al terziario; 1.255.000 mq di residenza semintensiva e 1.467.000 mq a villette; 704.000 mq di verde pubblico e attrezzato (Zingonia, 1966).
Ancora più in sintesi, Zingonia è pensata su circa 800 ettari, per una popolazione di 50.000 abitanti, migliaia di unità locali industriali e terziarie con un numero imprecisato di addetti. In tutto i cinque comuni del comprensorio, al censimento del 1961, contavano una popolazione complessiva inferiore ai 17.000 abitanti, e la maggior parte degli attivi era costretta all’emigrazione. Bastano questi pochi dati, per comprendere lo squilibrio delle forze in campo: da un lato una società contadina tradizionale, localistica, attraversata inconsapevolmente da uno sviluppo che non l’ha ancora toccata; dall’altro l’impresa, con una notevole capacità di pianificare, investire, creare consenso, gestire le relazioni fra gli attori. I paesani e amministratori di Verdello, o di Osio sotto, continuano a sentirsi tali, mentre la Z.I.F. (in modo non dissimile dagli enti di bonifica) opera a livello comprensoriale.
Si badi bene: siamo di fronte a un vero e proprio «comprensorio di pianificazione», che però non ha nulla da spartire con le forme partecipate che negli stessi anni stanno sviluppando le scienze del territorio con il dibattito sui piani intercomunali. L’impresa stipula cinque separate convenzioni con i comuni (solo uno dotato di strumento urbanistico), che per lungo tempo non riusciranno a riunirsi in alcuna forma consorziale. Anche questa, a ben vedere, è l’ennesima riprova di quanto «travestito nelle fogge più varie, spesso mutilato fino alla parodia, il messaggio di Howard continua ad essere produttivo» (Zevi, 1963).
Naturalmente, salvo prova contraria, l’operato dell’impresa è perfettamente legittimo nel suo svolgere a proprio profitto un ruolo di agente di sviluppo, aumentando il valore dei terreni, favorendo la creazione di posti di lavoro ecc., ma quanta distanza, fra questo tutto sommato organico inserimento nel sistema multipolare della città-regione, e i coevi temi del dibattito specializzato: «Progettate per divenire ambienti di vita organicamente stabili le città nuove e le città satelliti rischiano di ridursi a livello di sobborghi … per la mancata integrazione dell’urbanistica nella coerente previsione dello sviluppo economico» (Sirugo, 1966, p. 102). Un timore che nel caso di Zingonia vede una situazione totalmente ribaltata, già a partire dall’avvio dell’insediamento.
Verso la metà degli anni Sessanta, almeno dal punto di vista simbolico, Zingonia è una realtà tangibile: il Missile, simbolo e porta della città per chi percorre la strada provinciale Milano-Brescia «Francesca», immette al primo lotto residenziale di sei torri; le due arterie principali di Corso Europa e Corso America attraversano con un sistema a «Y» le aree a destinazione produttiva per inserirsi negli altri settori, residenziale e terziario-commerciale. Contemporaneamente un’impresa di prefabbricati (di proprietà della stessa Z.I.F.) produce in loco gli elementi componenti dei capannoni industriali che iniziano a insediarsi, confermando sin nei minimi dettagli che «La grande impresa è … la prima ad essere sollecitata dalle proposte urbanistiche di un intervento unitario» (Fabbri, 1983, p. 278).
Ma a ben vedere, come pure è stato osservato, questo tipo di intervento capitalistico sul territorio non contiene particolari elementi di innovazione rispetto alle operazioni analoghe dell’Ottocento, pur nell’accresciuta dimensione territoriale e articolazione funzionale consentita dal progresso tecnologico e organizzativo, salvo (e questo è il fatto distintivo) che proprio questa integrazione consente profitti elevatissimi. E’ possibile «rintracciare esempi concreti di queste tipologie in episodi notissimi …. nel nostro paese … si è raramente andati più in là della fase progettuale: il Centro direzionale di San Donato Milanese dell’ENI: la città satellite di Zingonia» (Romano, 1982, p. 220). Dunque esiste qualcosa di più, nel progetto per Zingonia, del «principio poco razionale della megalomania che sembra aver travolto l’abile speculatore» (Airaldi, 1980, p. 74). Ancora: «ci troviamo … di fronte a un raro caso di intervento illuminato di un industriale progressista di larghe vedute? La situazione ci sembra in realtà molto diversa» (Un caso…, 1982, p. 14).
Questa «diversità» però, a parere di chi scrive, va cercata soprattutto in positivo, e non certo nella più o meno fulgida «illuminazione» dell’imprenditore, che in un modo o nell’altro ha dimostrato fare il proprio mestiere, sfruttando le precondizioni che il contesto gli metteva a disposizione e costruendosi autonomamente altri elementi di vantaggio. Oltre i possibili giudizi sul «fallimento» o meno nel medio periodo dell’impresa Zingonia (che sul versante dell’insediamento produttivo sembra invece costituire ancor oggi un consolidato riferimento) è da sottolineare quello che si è più volte accennato sopra: la quasi totale assenza di una seria dialettica fra interesse privato e pubblico, con un discutibile risultato: il punto di vista dell’impresa è obbligatoriamente ma impropriamente assurto ad un ruolo di «pensiero unico» ante litteram.
Fa un certo effetto estraniante, con il senno di poi, guardare nel cuore del dibattito sui comprensori, la riforma del sistema amministrativo, la città-regione e i piani intercomunali, e assistere all’atterraggio di questa «astronave» nel vuoto sociale e istituzionale di cinque piccoli comuni a mezz’ora di macchina da Milano, con le loro agevolazioni fiscali per le aree depresse, le loro giunte e uffici tecnici impreparati al confronto con l’impresa moderna e le sue capacità di «governo». Ancora a metà degli anni Ottanta, l’immobiliare che ancora promuove l’insediamento a Zingonia lamentava la difficoltà di interagire con amministrazioni non coordinate, in un a situazione che di fatto vedeva ormai una forte integrazione territoriale, ma nessun passo avanti sul versante di quella amministrativa. E’ almeno curioso, e indicativo, che sia proprio l’impresa a sentire l’esigenza di una controparte, di un interlocutore istituzionale alla pari (Zingonia a 20 anni…, 1986). I vari articoli dei quotidiani che per un motivo o l’altro di cronaca negli anni recenti si occupano di Zingonia, colorano quasi sempre le descrizioni di ambiente con strade che si interrompono, verde curato fino a un certo punto e poi abbandonato, asfalto nuovo che diventa improvvisamente fondo sterrato o fangoso. E’, vistoso ed esplicito, l’effetto superficiale e forse meno importante di quanto abbiamo ripetuto sino alla noia, e che riassumiamo ancora una volta con le parole del Segretario alle new towns: «democracy cannot be hurried». Nel vuoto lasciato dall’intervento pubblico si inserisce l’impresa, svolgendo surrettiziamente e malamente un ruolo che non le è proprio, ovvero quello di animazione sociale e di «governo». In questo senso l’esperienza di Zingonia si inserisce, con coerenza e a pieno titolo, nel multiforme filone delle «città nuove», e degli equivoci che il termine ha generato fino a oggi.
Riferimenti bibliografici [questo saggio è stato pubblicato dalla rivista Metronomie, n. 12, 1998]
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