«Il crimine non si arrampica», suona uno dei tanti improvvisati ma fortunati slogan degli agenti immobiliari di Los Angeles, per vendere quelle ville multimilionarie sulle colline che sovrastano l’immensa metropoli. A significare ovviamente che gli abitanti di quei fronzuti pendii e serpeggianti canyon possono riposare sicuri appollaiati così in alto, rispetto alla pianura infestata da smog e malfattori là sotto. Quel che gli agenti immobiliari non ci dicono però, è che se effettivamente il crimine non si arrampica troppo su quelle colline, lo fanno di sicuro le fiamme. E la stessa cosa che rende tanto attraenti le soleggiate case da sogno di questa città – la lussureggiante gli edifici in legno i pendii da salire per tortuose stradine – le fa anche infiammabili quanto un caminetto. Pronte a diventare una fornace infernale come quella che vediamo da una settimana almeno, e tragicamente difficile da spegnere.
Il feroce incendio di LA ha ridotto in cenere una superficie pari al triplo di quella di Manhattan. Almeno 12.000 case rase al suolo e 150.000 persone evacuate, lasciando interi quartieri diventati mucchi di rovine fumanti. Venticinque i morti e altri ventiquattro ancora dispersi. Le stime dicono che i danni economici complessivi potrebbero raggiungere e superare i 250 miliardi di dollari, rendendo questo incendio il più costoso in assoluto nella storia americana; soprattutto perché sono andati in fumo immobili tra i più pregiati di tutto il paese. Ma non è ancora finita. La città ora teme altre distruzioni perché si prevede un nuovo intensificarsi del vento.
I media ci hanno restituito una specie di film catastrofico da Hollywood, con gli elicotteri che sfrecciavano nel cielo rosso e l’elenco infinito delle case di celebrità incenerite, e i mozziconi di palme carbonizzati. Sono bruciati i 14,5 milioni di dollari della lussuosa casa di Mel Gibson mentre registrava il podcast di Joe Rogan. E anche di quella in stile coloniale di Anthony Hopkins a Pacific Palisades ci resta soltanto un camino di mattoni incrostato di fuliggine. Bella Hadid ha postato a proposito della sua distrutta villa natale con undici bagni in località incautamente chiamata Carbon Canyon. Scene alla James Ballard con le ruspe che rimuovevano Porsche abbandonate per strada, e pompieri incarcerati per qualche condanna eccezionalmente rilasciati a combattere le fiamme per dieci dollari al giorno: a rischiare la vita per impedire che l’inferno consumi altri stratosferici valori immobiliari.
Le magioni delle celebrità occupano gran parte dei titoli di stampa, ma il fuoco non discrimina nessuno. Quasi tutte le 200 case mobili parcheggiate a Palisades Bowl sono andate in fiamme. Dall’altra parte a Eaton l’incendio ha devastato la zona non solo piccolo borghese di Altadena, cinquemila ettari di case, scuole, chiese, uffici. Uno spettacolo scioccante e di una infinita tristezza, ma anche del tutto prevedibile. Si è data spesso la colpa un po’ a caso alla cattiva gestione dell’acqua, o ai tagli del servizio antincendio, ma si poteva fare davvero ben poco per fermare quelle fiamme. Dopo un secolo di espansione urbana mal concepita e del tutto incurante del cambiamento climatico, si trattava semplicemente di aspettare quando sarebbe successo.
Un disastro anticipato da decenni. In un saggio del 1995, The Case for Letting Malibu Burn, lo scomparso critico e attivista urbano Mike Davis ricostruiva i modi in cui generazione dopo generazione di edilizia residenziale sulle colline a rischio di incendio si fossero create le condizioni perfette per una tempesta di fuoco. Denunciava la «rampante incontrollata proliferazione di sobborghi incendiari» fatti di case di legno «sparpagliate qui e là tra colline e crinali». I boschi della California meridionale bruciano secondo un proprio ciclo naturale, spiegava, e pare spietatamente criminale da parte della pubblica amministrazione non solo consentire tutte quelle costruzioni in zone a rischio, ma addirittura incentivarle.
L’altissimo rischio di incendio nella regione, continuava, si deve anche all’allineamento dei canyon della costa ai venti di Santa Ana, le forti brezze asciutte che soffiano da nord est. Tutti gli avvallamenti dell’area di Los Angeles funzionano come giganti condotti di aerazione accelerando il vento e convogliandolo sul territorio, più caldi e secchi che mai col cambiamento climatico. La scorsa settimana quei venti hanno soffiato a più di centoventi chilometri l’ora, scaraventando tizzoni accesi da un crinale all’altro, da una strada all’altra, redendo praticamente impossibile contenere l’incendio. Come osservava un operatore di emergenza: «Finché si parla di quindici chilometri all’ora posso fare il pompiere, ma se diventano cinquanta all’ora divento un osservatore e basta». E oltre quello si è tutti foglie al vento.
Ma non esiste incendio senza qualcosa che lo innesca e che lo alimenti: a quello hanno pensato le schiere interminabili di case e auto tra quelle secchissime colline. Tutto inizia oltre un secolo fa, con l’esplosione demografica di Los Angeles che moltiplica la propria popolazione di ben tredici volte: da 170.000 abitanti nel 1900 ai 2.200.000 del 1930. Persone attirate dalla promessa di costruirsi un proprio villino di legno con giardinetto delle delizie, in una terre di brezze tiepide invernali dove crescono gli agrumi dietro casa. La città esplodeva e saliva man mano i novi venuti si cercavano una fettina di Eden, un proprio «boschetto di privacy», per usare le parole del critico di architettura Reyner Banham, via dalla densa esistenza urbana. Arrivava la gente e gli incendi la seguivano. Ma ogni volta la pubblica amministrazione interveniva peggiorando le cose. «In ogni caso di distruzioni puntualmente seguiva una ricostruzione più grande e ricca» scrive ancora Davis, «con norme urbanistiche e talvolta addirittura anticendio più elastiche per far posto agli sfollati»».
Ignorati tutti gli avvertimenti. Nel 1930 Frederick Law Olmsted Jr, ideatore del sistema californiano dei parchi, proponeva di destinare a zona di tutela 4.000 ettari di alture e spiagge della zona di Malibu. Ma invece l’area fu invasa da quelli che Davis definisce «ricchi piromani» per costruirci i propri rifugi in legna da ardere. Molti poi distrutti dal fuoco e ricostruiti parecchie volte negli anni. «L’amministrazione Eisenhower fissa un precedente quanto a sussidi pubblici per questi firebelt suburbs», dopo un grosso incendio degli ani ’50 Malibu viene dichiarata area colpita, e ai proprietari offerti sia esenzioni fiscali che prestiti a basso interesse, alimentando ulteriormente il rischio. Dopo un altro fuoco degli anni ’70 molti proprietari che ricostruiscono diventano esenti, grazie a nuove norme governative, da certi criteri sulla pressione dell’acqua o sezioni stradali, che faranno diventare gli incendi ancora più complicati da contenere.
Riuscirà la situazione attuale finalmente a far ritirare Los Angeles da quella linea di fuoco, anziché continuare a costruirci sopra? Le politiche insediative sinora hanno condotto a una enorme crescita di vegetazione infiammabile, puro carburante, situazione ulteriormente esasperata dalle dilaganti specie invasive. Il sistema locale nativo del chaparral (selva di arbusti e piccoli alberi) si è sempre incendiato in cicli ecologici naturali, rinnovandosi e rinnovando il terreno, fenomeno gestito dalle popolazioni indigene per molti secoli.
La natura, sembra, convive benissimo col fuoco. Certi tipi di conifere che popolano le alture attoro a LA, aprono le pigne quando la foresta brucia rilasciando i preziosi protetti semi. La manzanita inizia a far crescere i suoi arbusti solo quando brucia il terreno attorno affondando le radici nella cenere. Anche la fauna se ne avvantaggia. I roditori approfittano dello spazio aperto per cercare semi nutrienti; i conigli trovano nuovi freschi germogli; gli uccelli rapaci controllano più ampi territori di caccia, dove si vedono meglio lucertole, serpi, topolini; i cervi si stabiliscono ai margini dei territori incendiati dove usano il chaparral come rifugio dai predatori e fonte di foglie fresche in crescita. L’interferenza umana con questi cicli non solo danneggia l’ecologia locale, ma fa accumulare enormi quantità di carburante che alimenteranno incendi sempre più micidiali una volta innescati. Una macchia di chaparral che si è riempita di legname morto e secco per mezzo secolo brucerà con una intensità cinquanta volte quella di vegetazione di vent’anni. Incendi di quella potenza modificano la composizione stessa dei suoli rendendo poi più probabili fenomeni di erosione frane e allagamenti in caso di pioggia.
Anziché limitarsi alla ricostruzione, come si è fatto e rifatto tante volte in passato, questi eventi cataclismici dovrebbero stimolare una riflessione sul tipo di crescita urbana. Già il settore assicurativo pare reticente a coprire i rischi di case nelle zone propense al fuoco, non si capisce se si accolleranno la responsabilità per questi eventuali multimiliardari lavori. Devono cambiare anche i regolamenti edilizi, provocando una impennata dei costi di costruzione in quelle zone. Invece di badare solo alle precauzioni tecniche, introdurre sistemi di strisce spartifuoco per le aree residenziali, e già questo da solo sarebbe un modo per modificare la cultura suburbana di LA. Quelle forme insediative piromani stanno codificate nelle norme do zoning da decenni: quasi l’80% della superficie dove sono consentite esclusivamente abitazioni unifamiliari, spingendo sempre più profondamente l’edificato nell’area a rischio incendio.
Insignificanti i tentativi di aumentare le densità, come quando si è consentito di costruire qualche altro fabbricato sul retro dei lotti, poco più che capanni, e una goccia nel mare oltre ad essere diventati spesso appartamenti affittati su piattaforma Airbnb. Per dirla con Char Miller, autore di Burn Scars, a history of wildfire suppression in the US, si dovrebbe parlare di «Cresci verso l’alto e non di lato» vale a dire con più densità e lontano dalle zone a rischio invece di addentrarcisi sempre di più. E cita l’esempio di San Antonio, dove il rischio è di alluvione e la città ha proibito di edificare nella pianura «mettendo finalmente la sicurezza davanti alla crescita continua». A Los Angeles già si parla di ricostruire al più presto e in fretta, e la sindaca Karen Bass ha deliberato di «eliminare gli ostacoli burocratici. Ma come ha osservato l’ex direttore dell’agenzia federale per l’emergenza, Craig Fugate: «Una casa distrutta dal fuoco non può essere considerata abbordabile». E neppure sostenibile se è per questo. La città ha bisogno di densificarsi, non di nuovi capanni di legno da ardere. Ed è piuttosto ironico che ad obbligare LA a cambiare strada sarà il settore delle assicurazioni.
da: The Guardian 15 gennaio 2025; Titolo originale: ‘Criminally reckless’: why LA’s urban sprawl made wildfires inevitable – and how it should rebuild – Traduzione di Fabrizio Bottini – Link: Mike Davis, The case for letting Malibu burn