Tokyo: turismo low cost e transizione postindustriale

Blade Runner – Screenshot

C’è lo yen svalutato e tutti vengono a Tokyo. Niente di particolare si pensa, e non perché io sia un falso modesto o magari un po’ incerto nelle intenzioni; ma quella è l’unica cosa che si riesce a leggere della capitale giapponese sulla stampa in lingua inglese dopo la pandemia. Continuo a leggerli quei resoconti. Anche dopo nove anni nel paese, non ho ancora imparato abbastanza il giapponese per sentirmi liberato da quel che si trova sull’internet anglo-americano, ma temo di trovare solo sovrabbondanza di storielle leggere per turisti. Uno dei motivi per questo genere di copertura mediatica sulla città in cui vivo pare essere un perseverante ottimismo: Tokyo rimane fissa nell’immaginario americano dal dopoguerra come luogo di ricchezza, raffinato, cultura autentica, con una fama di deferente ospitalità. Senza pensare un istante come si tratti dell’effetto studiato di una campagna di immagine per esportare l’idea di un Giappone industriale acculturato e aspirante a scambi commerciali.

Ottant’anni dopo l’invasione americana, a Tokyo può venire chiunque abbia un paio di migliaia di dollari, nello stesso modo in cui si suol dire che Città del Messico è un’oasi per nomadi digitali, oppure Yiwu una Alessandria dei nostri giorni – nodo commerciale dove si incrociano mercanti e mediatori dal sud globale – e il tono da guida turistica lascia puntualmente piuttosto perplessi coloro che attraversano innocentemente un secolo di totale trasfigurazione. Chi scrive quelle cose vorrebbe far intendere in realtà, nel linguaggio più accattivante possibile per il consumatore, che fare il turista low cost a Tokyo resta l’ultima speranza per un paese fumato fino al filtro. L’economia giapponese non è mai risalita dalla bolla finanziaria di fine anni ’80; fine degli aumenti di stipendio per gi ultimi tre «decenni maledetti» e calo demografico verticale negli ultimi quindici anni con cittadini previsti ridotti della metà nel 2100. Ecco perché diventa tanto importante qualunque turista che scende all’aeroporto di Haneda o Narita, che poi vada a comprare qualche palandrana a Omotesandō, o i manga pornografici a Akihabara, o solo frittelle a FamilyMart.

Può darsi anche che, guardando le cose dalla prospettiva opposta, il vero problema siano i troppi turisti. Un osservatore ambizioso potrebbe dedurre un parallelo fra i problemi del sovraccarico turistico a Venezia o Bali, e le frenetiche strategie locali giapponesi per spingere vacanzieri verso o fuori dai quartieri un tempo dormitorio o trascinarli da vie a luci rosse fra prostitute adolescenti, usando come leva quegli articoli su stranieri che strappano i rami dei ciliegi in fiore, oppure che si ingozzano di riso fino a esaurire le scorte nazionali. Mi viene da piangere quando guardo il televisore acceso in qualche kissaten, il coffee shop locale, che trasmette scene di teppisti stranieri a Shibuya; se sono in un coffee shop, mi sento addosso gli sguardi della clientela giapponese che sta valutando le mie tendenze criminali, ma da solo in camera in realtà mi gusto i servizi sul sovraffollamento dei mezzi pubblici, o le interviste ai residenti che si lamentano di qualche schiamazzo. E i commenti si spingono fino a parlare audacemente di un kanko kogai, «inquinamento turistico», a proposito dei visitatori cinesi come qui è in uso dal 2018.

La corsa di Tokyo verso la totale saturazione turistica non è sempre stata così frenetica. In questa enorme città, la cui economia è più grossa di quella di parecchie nazioni europee, che copre una superficie di quasi 13.000 kmq, anche gli alti e bassi dei flussi di decine di milioni di turisti si potrebbero gestire facilmente assai meglio di quanto non succeda in certe trappole commerciali all’estero. Il mercato immobiliare non ha subito particolari scosse per la riconversione in alberghi, e serie regolamentazioni degli affitti brevi introdotte sei anni fa hanno evitato a Tokyo quelle distorsioni che ben conosciamo in città come Firenze, dove Airbnb e proprietari speculatori hanno indotto una crisi delle abitazioni.

Ma il turismo di massa qui come altrove resta deprimente e umiliante. I turisti spezzano il ritmo della città, turbano per quanto superficialmente gli equilibri nell’uso degli spazi locali. È quasi impossibile descrivere queste cose senza apparire un po’ un bastian contrario prevenuto – capisco benissimo che non c’è nessuna cattiva intenzione da parte loro – ma abito in Giappone da abbastanza tempo perché la sorpresa di incrociare un grosso vagante americano con quell’espressione trasparente e i pantaloncini di sintetico fluorescenti, per scuotermi dall’atmosfera abituale in cui mi ha indotto questa città. Sono sensibile a irritazioni incomprensibili a chi viene da fuori. Una parte di me simpatizza con quelle famigliole di visitatori che faticano a salire su un treno della linea Yamanote carichi di valigie, o le ragazzine che riprendono per TikTok le schiere di Ministop, ma la mia abitudine a Tokyo fa sì che non possa non notare quando qualcuno ne viola le regole di comportamento. In questa città ci si aspetta di soffrire solo in un certo modo. Bisogna averci abitato per capire quanto possa essere una bestemmia scampanellare in bicicletta quando basta annunciarsi facendo un po’ stridere i freni. Impossibile riuscire a spiegare che non ci si siede sui cordoli di cemento attorno alle strabordanti aiuole di certi incroci. E anche come il rombo delle rotelline di plastica dei trolley possa far più paura dei colpi di mazza ferrata.

Oltre a rendere una città un po’ più brutta e disordinata, il turista ci ricorda ogni triste vicenda di riduzione del popolo locale a uno stato di servitù. Qui negli anni più recenti il concetto di omote-nashi – l’ospitalità giapponese – è stato riconvertito dalla promozione turistica nazionale giapponese in una specie di servizio civile in tempo di guerra. E i turisti così finiscono per comportarsi come se stessero in mezzo a schiere di camerieri in un albergo o attori su un palcoscenico; l’intera ospitale nazione è al vostro servizio (può essere divertente guardare su un angolo di Asakusa americani ed europei che chiedono indicazioni a indaffaratissimi quasi robotici ma impeccabilmente gentili lavoratori degli uffici, o visitatori cinesi e anziani barcollare verso la locale sala scommesse). Il turista ricorda al cittadino che quando si parla di futuro urbano lui in fondo non c’entra un gran che.

Il mio quartiere non è per turisti raffinati. Taitō è tutto tempietti e alberghi a buon mercato. Si sa che il visitatore più fine si rivolge altrove. In Giappone la parte principale la fa il turista cinese, ma oggi sono parecchi meno di cinque o dieci anni fa. Magari hanno raggiunto la dose di saturazione di tempio Sensō-ji o iniziano ad essere un po’ stufi delle bancarelle traballanti del mercato Ameyoko. In questa zona orientale di Tokyo, i turisti arrivano soprattutto dall’Australia o dagli USA, bianchi anglofoni bardati sportivi come se pensassero di dimostrare la propria resistenza correndo da Ueno ad Asakusa. Quando il tempo è meno clemente avvolgono sé stessi e gli zainetti nelle mantelle di emergenza, fino a sembrare fantasmi che spuntano dalla nebbia. Si sente il rombo delle rotelline di plastica dei trolley mescolarsi allo scrocchiare delle mantelle di plastica sul marciapiede. Vanno a dormire in qualche ex bordello riconvertito in albergo dalle parti di Uguisudani. Si ritrovano nell’enorme Uniqlo di Okachimachi. Scattano foto fuori dai templi di Asakusa. Si attrezzano di body-cam per dimostrare al mondo il proprio passaggio a Kappabashi Street. Li spio senza rimorsi: sono venuti per dare uno sguardo turistico alla città e si meritano essi stessi un analogo sguardo.

Verso queste aree della metropoli sono stati instradati eserciti di migranti al servizio del turismo, del tutto ignaro o indifferente al fatto che le cameriere dei ristoranti di Asakusa siano studentesse vietnamite o residenti cinesi. Va oltre le competenze di uno straniero notare lo specifico accento quando si parla inglese o giapponese (e oggi con le ordinazioni che passano attraverso un tablet di accenti se ne ascoltano ancora meno), figurarsi capire linguaggi del corpo non giapponesi. Il lavoratore straniero, indispensabile per mandare avanti le cose, deve scivolare nellos pazio angusto tra domanda di mercato e burocrazia, specie se si considera l’espediente legale che ne consente l’ingresso nel paese. Se lo scomparso primo ministro Shinzo Abe aveva allargato le maglie per l’immigrazione non di alta qualifica professionale con la serie di norme «misure organiche per l’accoglienza e coesistenza di nazionalità straniere» sono ancora in tanti ad arrivare col visto da studente. Mediatori e scuole di lingua organizzano corsi minimali e garantiscono permessi di lavoro per una settimana da 28 ore, che però diventano poi molte di più. Il controllo legale diventa più difficile ancora tra gli studenti-lavoratori stranieri, preda di scuole di lingua e agenzie di collocamento private. I più sfortunati arrivano inseriti dentro programmi di formazione, che travestono da vocational training ciò che tante indagini hanno accertato essere invece traffico di esseri umani, fatto di truffe, abusi, addirittura morti, torture, traumi psicologici. I lavoratori stranieri che stanno fuori dai programmi legali – solo nel 2023 se ne calcolano oltre 9.000 usciti dai registri – diventano ancora più vulnerabili e sopravvivono di lavori in nero.

L’economia di Tokyo dipende dal settore servizi, e assorbe ogni riserva di giovani come cassieri o fattorini, il che significa tollerare tutti i lavoratori stranieri. La maggioranza di governo Liberal Democratico li qualifica come unico argine possibile contro lo shoshi koreika: sempre meno bambini e una popolazione che invecchia. Fino a ulteriori sviluppi dell’automazione – stiamo solo cominciando a dismettere sistemi di floppy disc, macchine fax e lavoro a vita per la stessa impresa – o il sorpasso economico di Vietnam o Nepal sul Giappone, l’unico modo di garantire le vaschette di insalata pronta sugli scaffali di 7-Eleven pare importare manodopera.

Gruppi di burocrati e politici sognano un’economia di investimenti immobiliari e speculazione finanziaria. Propenderebbero per una nuova città e una nuova popolazione, disponibile a pagare e lavorare senza alcun potere di chiedere o decidere. E schivare così il crollo demografico, scegliersi i turisti e gli immigrati come si fa con le uova, decidere quote variabili a seconda degli equilibri finanziari. La statale Organizzazione Giapponese del Turismo Nazionale prevede 60 milioni di turisti l’anno nel 2030. Ci si impegna così per importare braccia da adibire ai lavori agricoli, in cucina, sui furgoni delle consegne. Mentre la popolazione locale si restringe fino all’irrilevanza.

I lavoratori stranieri comunque non vivono nel mio quartiere. I miei vicini appartengono alla famiglia dei cosiddetti «espatriati»: l’ingegnere programmatore svedese che ha iscritto la figlia alla stessa scuola di mio figlio; l’insegnante di Inglese madrelingua dal Tennessee; la coppia di cinesi che gestisce un negozio di targhe personalizzate all’angolo; il commerciante di gioielli Gujarati che conosco di vista, sempre con la sua Maserati parcheggiata in divieto e la svastica ben visibile sopra la capote davanti alla palazzina; o il fotografo francese con la moglie giapponese che mi racconta sempre sue teorie sull’addestramento dei cani, le diete vegetariane o l’influsso del 5G sui vaccini.

Anch’io sono arrivato a Tokyo seguendo una donna. Ci siamo incontrati quando lei era turista nel mio paese. Volevamo andare insieme nel suo e spostarci qui e là da turisti, fin quando io mi iscrissi a un master in letteratura cinese contemporanea all’università Sun Yat-sen, e lei seguiva i suoi corsi di laurea in un altro campo più spendibile. Ma passava il tempo, finivano i soldi, non si stava malissimo e rimasi intrappolato. Ci sposammo negli uffici comunali di Shibuya, posammo per quelle foto rituali stupide di rigore nel caso (lei in costume e gioielleria etnica, io in frack grigio), presentando poi formale domanda per convertire il mio visto turistico in permesso di lavoro da «Coniuge o figlio di Cittadino Giapponese».

Ne trovai uno di lavoro, a pulire il vomito e raccogliere i bicchieri vuoti di un locale notturno di Roppongi. Sistemavo i tavoli di un ristorante italiano a Harajuku o aiutavo in cucina in una pizzeria a Oji, imparando il mestiere da un inacidito straniero integrato ristoratore introdotto dall’ex moglie. Ci ero abituato. Praticamente da tutta la vita avevo lavorato nei bassifondi dell’industria dei servizi o della logistica e alimentazione.Mi consolavo sognando il momento in cui finito il mio romanzo, quello sarebbe suonato assai più autentico perché scritto direttamente buttando grondanti panini con l’hamburger nei bidoni. D’altra parte senza alcuna capacità di quelle apprezzate dal mercato non avevo molte altre scelte. Non aiutava neppure il fatto di essere troppo ottuso o stupido per imparare un po’ di giapponese. Schivavo i corsi gratuiti pubblici disponibili anche ad Arakawa, preferendo concentrarmi sul mio russo, con cui speravo di capire cosa dicevano quei tizi girovagati per Roppongi. O esercitando un po’ di spagnolo coi peruviani che lavoravano sull’altro lato della via dove stava il mio ristorante italiano. Mai imparato una parola normale a Tagalog, solo gergo osceno.

Adesso mi guadagno da vivere scrivendo, versato online dall’estero. Molto meglio ritrovarsi in quella categoria di turisti che si definiscono espatriati, anche se mi spiace ammettere di avere molto più in comune con l’ingegnere programmatore svedese della porta accanto, che con gli studenti-lavoratori cinesi che passano direttamente dalla scuola di lingua la mattina al più vicino 7-Eleven al pomeriggio. Essere scrittore espatriato non è glamour come mi immaginavo da ragazzino, sognando di stare in un loft a Tangeri circondato dai fogli sparsi dell’ultimo romanzo in formazione. Non è neppure romantico come cercavo di fare la prima volta, sacrificando i pochi risparmi a Guangzhou, e scrivendo racconti impubblicabili tra una richiesta-spedizione Western Union e l’altra dei soldi da mia madre. Però adesso mi cerca qualche turista anglofono raffinato, quando non si riesce a trovare altri scrittori più noti. È cominciato quando il paese si è riaperto dopo la pandemia, e il cambio di valuta ha reso più accessibile il viaggio a Tokyo per scrittori semi-famosi, neolaureati con qualche pubblicazione su riviste di sinistra, celebrità internet varie.

Inorgoglito da tanta fiducia, ero assai lieto di fungere da guida della «Tokyo autentica». Incontravo i miei ospiti alla stazione Uguisudani, puntando direttamente verso una schiera di alberghi a ore, noti anche per le risse tra anziani criminali del settore sesso, e poi deviare verso la montagnola sacra Fujizuka (miniatura del Monte Fuji, residuo di un movimento religioso cinquecentesco) nascosto in fondo al cortile di un tempio. Li pilotavo attraverso i più inquietanti complessi di case popolari, in genere deserti. Oppure a visitare i nagaya, le baracche di lamiera in attesa di demolizione. Cercavo di raccontare storie segrete, come quella delle ossa spuntate improvvisamente scavando nel cantiere della stazione Minami-Senju, dove un tempo stavano un luogo di esecuzioni della pena di morte e il crematorio. «Il fotografo Araki qui ha scattato per il personaggio della prostituta Midori» raccontavo a parecchi ospiti visitando il parco Yoshiwara, «e adesso le ragazze che lavorano nei locali della zona vengono qui a posare per i propri album». Poco più in là mi compiacevo di indicare le violente immagini accanto alla statua del Bodhisattva Kannon. «Kawabata veniva qui nel 1923, subito dopo il terremoto, raccontando delle centinaia di cadaveri delle cortigiane e dei loro bambini, letteralmente bolliti vivi nel laghetto mentre gli incendi attraversavano il quartiere dei bordelli».

Li accompagnavo ad assaggiare gelatina di caffè e fette di pane al latte in una sala da tè kissaten tra schermi televisivi incombenti e proprietari dementi. Gli mettevo sotto il naso bacinelle di rana pescatrice stufata, esaltandone il brodino squisito che si condensa in gelatina e che si riesce a staccare dal palato soltanto col shōchū di grano saraceno. I giri turistici di solito terminavano nella zone est di Tokyo alla vecchia piazza di reclutamento manodopera, o yoseba, a Irohakai. Qualcuno ne aveva sentito parlare. Guardando Yama: Attack to Attack, documentario del 1985 sulla locale militanza progressista, che aveva scatenato la reazione della criminalità organizzata, fino all’omicidio del regista durante la produzione del film, e anche di chi l’aveva poi sostituito. Nemmeno il quartiere si chiamava più Sanya (la pubblica amministrazione cancellò il nome dalle carte negli anni ’60) ma molti dei miei turisti il nome lo conoscevano per averlo letto nelle storie del movimento dei lavoratori.

Sanya è la base per pensare a una città divisa tra turisti e lavoratori stranieri. Dopo la seconda guerra mondiale chi era scappato dalle campagne impoverite del nord si stabiliva qui perché i treni li avevano scaricati alla stazione di Ueno e avevano trovato non molto lontano un posto a buon mercato. Le baracche dell’occupazione americana erano state rilevate da qualche intraprendente che ci ricavava sempre più spazi per metterci nuove persone. La yoseba a Sanya era una vera e propria asta di esseri umani. Le imprese di costruzione preparavano un elenco delle necessità del giorno – diciamo dieci uomini che sapessero gettare cemento e un’altra ventina senza particolare capacità – e i mediatori scendevano dentro lo slum prima dell’alba a trattare la merce. Imperversava il miracolo economico. A Sanya si rifugiavano i senzatetto, la polizia inoltrava i vagabondi. La yoseba diminuiva ma senza mai scomparire del tutto. Ai locali si aggiungevano gli stranieri in cerca di qualche occupazione, ma quando ho cominciato io a venire a Irohakai, erano rimasti solo pochi anziani. Ai criminali intermediari si erano sostituiti mediatori di subappalti e caporali dell’edilizia in furgone. Pochi gli stranieri forse bengalesi o nepalesi. Ci sono posti migliori per trovarsi un impiego.

Anche i gestori di casamenti o pensioncine hanno dovuto adattarsi. Raccattando i sussidi garantiti dal governo ai migranti smobilitati. E cominciando a riempire gli altri posti letto di turisti occasionali. Sanya, restando una delle zone più povere della città, diventava una destinazione possibile per i visitatori. Spiegavo anche alle persone con me come i primi tempi a Tokyo, avevo anche visto un semplice portico di copertura sotto cui si affollavano i senzatetto, e che amministrazione e costruttori tentavano in ogni modo di demolire. Qualcuno voleva visitare le residue strade delle insegne luminose dell’epoca della bolla finanziaria tanto mostrate sui media americani. Oppure dare un’occhiata a quelle ragazze pochissimo vestite di Harajuku fotografate per FRUiTS nelle «istantanee di strada» vent’anni fa. E pur facendo fatica ad ammetterlo in fondo sognavano anche di scimmiottare quelle fantasie di Charlotte-e-Bob in Lost in Translation dentro un bar karaoke in un quartiere di tendenza. Oppure visitare bagni riconvertiti in gallerie d’arte. La visita in cui li avevo guidati gli ricordava di continuo crudelmente che «Tutto questo sparirà presto». Ma magari gli dava sollievo pensarlo.

Se la storia ci insegna qualcosa, è che gli abitanti di una zona si possono spazzare via deportandoli, o con un pogrom, o magari quando la generazione successiva va a stare in zone migliori della città. Le enclave magari non diventano quartieri ma i quartieri a volte non durano. Tokyo è una città abbastanza giovane rispetto a tante alter capitali, affermata come centro politico solo dopo la Restaurazione Meiji del 1868. Resta poco del vecchio mondo dopo tanti incendi e demolizioni nel XX secolo. Il generale dell’aviazione Curtis LeMay metteva a ferro e fuoco con le sue fortezze volanti B29 più di quaranta chilometri quadrati della città. Gente scappata. Ma poi la città si allargava ancora.

Nella mia zona, gran parte degli abitanti giapponesi sono arrivati da altrove sull’arco di una generazione; da nord per la ricostruzione della città o dalle sterminate periferie. Alle feste religiose partecipano le giovani coppie dell’est di Tokyo, ma gli abitanti locali in realtà non seguono molto i riti, al punto che le ragazze dei templi nelle tuniche bianche addette a distribuire amuleti sono reclutate temporaneamente tramite agenzia, così come i robusti ragazzi di campagna per reggere le pesanti effigi nelle processioni. Nel mio edificio di giapponese abitano soltanto anziane vedove venute in città dopo la guerra, e i cui figli si sono trasferiti dove era più comodo per il lavoro e i mezzi di trasporto. Non c’è alcuna ragione particolare per restare qui a Shitaya invece che a Akabane, Minowa o Machiya. L’Edokko – chi affonda le proprie radici in città per almeno quattro generazioni – è una figura rara da sempre. Difficile da calcolare ma pare ottimistico ipotizzare che arrivi all’1% della popolazione.

Terrificante la prospettiva di essere espulsi, dalla città. Gli abitanti che lamentano quei rumori di trolley sul marciapiede forse la città la odiano, ma temono molto di più la rescissione delle proprie deboli radici, che qualche grattacielo o supermercato finisca per seppellire ogni traccia della loro esistenza. In un paese che sta raccolto attorno a Tokyo come fosse la fiaccola che contrasta le tenebre tutto attorno, lasciare la città verso qualche remota periferia o provincia di sale da gioco pachinko (flipper) e ristoranti familiari pare una condanna all’esilio, anche se magari si tratta del paesello natio di qualche genitore o nonno. Qualunque politica pubblica di sostegno economico al trasferimento sancirebbe una specie di crisi, e per ottimi motivi: lasciare Tokyo significa rinunciare al sogno della ricostruzione giapponese, quando dignità e benessere del paese valevano qualunque sacrificio, e tutti volevano essere testimoni attivi del miracolo.

E il Giappone un miracolo lo era sul serio! La trasformazione da sanguinario Impero in tranquilla pur instabile Democrazia è straordinaria; lo è anche di più se consideriamo come l’occupazione alleata lasciò al potere quelli che erano criminali di guerra. La ben gestita economia del dopoguerra divenne una potenza. Garantito reddito modesto e posto di lavoro a vita se si accettavano le rigide regole aziendali. Ma chi poteva decidere mandò tutto al diavolo svendendo poi residui sul mercato internazionale; la versione giapponese del socialismo – un’economia pubblica che programmava case economiche, impieghi a vita, trasporti pubblici efficientissimi – venne smantellata, cadde ogni speranza nel paese, e quelle che erano promesse di rinnovamento non sono state sinora mantenute.

Oggi tutti guardano al passato. I lavoratori stranieri vorrebbero rivivere il sogno degli anni ’80, quando si arrivava qui scappati da Fuzhou o da Teheran pieni di intenzioni diventare ricchi e tornarsene poi a casa carichi di valuta straniera. Ma i turisti low cost che scattano foto dei caffè di Akihabara; o i turisti del sesso a Kabukicho; o i solenni ben vestiti turisti davanti a Andaz; quelle camionate di anziani turisti europei scaricate dietro Sensō-ji; o anche quei turisti di lungo cabotaggio che si autodefiniscono espatriati, quelli di nostalgie ne hanno molte di meno. Loro vogliono il futurismo giapponese luccicante e di tendenza che hanno imparato a sognare da bambini.

Ho iniziato a incontrare quei visitatori un po’ più importanti negli atri profumati di qualche albergo di lusso, o nei ristoranti dei grandi magazzini esclusivi di Nihonbashi e Ginza, scegliendo apposta il tipo di luoghi in cui un’accompagnatrice kyabakura porta il cliente in un lungo preliminare sociale, approfittandone per ingozzarsi di bistecche e champagne, prima di scortarlo in un posto più intimo per spremergli atri quattrini. I miei ospiti parevano assai perplessi dai toni cupi in cui descrivevo il loro sognato paradiso urbano. Non volevano proprio sentirne parlare, del fatto che qui il futuro, come del resto succede ovunque, fosse fatto di traffico di esseri umani e turismo low cost. Spilluzzicando ali di piccione nel barbecue shop sede locale di una catena di Hong Kongai piani alti di una torre di cristallo, nessuno pare aver voglia di ascoltare lezioni su come si siano demolite case popolari e quartieri rifugio per lavoratori migranti con questi complessi residenzial-commerciali. Esponenti politici e mondo degli affari sono entusiasti di tutti i visitatori stranieri che potranno risolvere il crollo demografico, stimolare i consumi nel piatto settore dei servizi, spingere il mercato immobiliare. Chi cerca cittadinanza passa per la città, i cui quartieri vengono riplasmati da architetti e urbanisti che lavorano per conto degli investitori, rivolti ad abitanti temporanei che non fanno troppe domande, e se necessario si possono sfruttare politicamente.

Tokyo si prepara a un futuro del genere. Ma diventa sempre più difficile attirare lavoro straniero, col Giappone più povero in mezzo a quei quartieri per ricchi. Per una ripresa del turismo almeno ai livelli del pre-pandemia, bisogna mantenere un cambio dello yen basso che si trascina giù anche il resto dell’economia, per non parlare della difficoltà di garantire stabilità ecologica e geo-politica. Il futuro sarà solo quando si abbandoneranno gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e la cultura dell’ospitalità nipponica omotenashi, quando saranno riconvertiti i quartieri a luci rosse in aree economiche speciali di commercio duty-free, o si butteranno giù le coperture delle sale giochi usate dai senzatetto per metterci qualche altro albergo.

Cancellati tutti i segni materiali e spirituali che possono evocare credibilmente visioni poco romantiche del passato. Chi resta indietro – i nipoti cresciuti dentro le enclave, i meno ambiziosi abitanti dei quartieri per espatriati, chi ha provato a ritornare dall’esilio suburbano, chi ha in qualche modo resistito – affronterà il problema di una città costruita su misura per ispirare fiducia agli investitori. La vecchia società di un paese invecchiato in un paese dove i giovani venuti da lontano sono ridotti a servi deva guardare altrove per cercare una speranza. È per quello che ancora sto qui, dopo tante false partenze, pensando che Tokyo possa rappresentare il futuro. Ma mi piacerebbe anche sapere cosa vuol dire.

da: The Guardian, 14 gennaio 2025 [articolo adattato da «Eastern Promises» pubblicato su Expatriates]; Titolo originale: Tokyo drift: what happens when a city stops being the future? Traduzione di Fabrizio Bottini
Si veda anche su questo sito l’articolo di Becca Faber dalla Harvard International Review dedicato alle
Politiche migratorie giapponesi per arginare l’invecchiamento della popolazione  

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