Una nuova politica suburbana oltre il Sogno

foto F. Bottini

Durante il lockdown della pandemia e le proteste di massa del 2020, sono stati in molti i politici americani sia di destra che di sinistra a rievocare l’ideale americano del suburbio. Nel corso della sua campagna elettorale, Donald Trump faceva appelli quasi disperati alle «casalinghe suburbane d’America» sostenendo che Joe Biden voleva «cancellare il suburbio». Trump twittava invece di voler tutelare «Il Sogno dello Stile di Vita di Suburbia» dal crescere della criminalità e dall’insediamento di case popolari per afroamericani a basso reddito. Durante le proteste che sono seguite all’omicidio di George Floyd da parte della Polizia di Minneapolis, la deputata Alexandria Ocasio-Cortez si aggiungeva a quanti decantavano un’immagine rosea di quei quartieri. «La gente mi chiede come sarebbe un mondo in cui non c’è più la polizia e io gli rispondo che avrebbe l’aspetto di un suburbio». Ma molti commentatori criticavano sia le posizioni di Trump che quelle di Ocasio-Cortez, su un suburbio che ormai è diversissimo da quanto sembrano pensare i politici, da un punto di vista razziale e socioeconomico. Non esiste più nessuno che, salvo nel mondo della pubblicità, faccia riferimento il tipo di donna suburbana evocata da Trump; e Michael Brown, Trayvon Martin, o Ahmaud Arbery, tutti vivevano e sono stati uccisi in un suburbio. I dati ci dicono anche come in quel tipo di quartieri ci siano molti più arresti e uccidi dalla polizia che non nelle grandi città.

Ma come confermano Trump e Ocasio-Cortez, ancora regge il mito di suburbia, dell’enclave ricca bianca dove si vive il Sogno Americano dagli anni ’50. Diversi nuovi libri affrontano di petto questo mito. Rivelandoci povertà e diversità che esistono ormai da molto tempo, e insieme i flussi della repressione poliziesca, della globalizzazione, della gentrification, che hanno rimodellato nel loro insieme le periferie metropolitane, approfondendo i solchi che dividono e segregano le comunità suburbane. L’immagine normalmente diffusa del suburbio appiattisce ogni differenza di classe o altro, producendo già quel genere di appelli populisti della politica, da Richard Nixon a Bill Clinton fino a Donald Trump. Ma i sobborghi diventano sempre più diversi da un punto di vista razziale ed economicamente diseguali, e si rende sempre più importante iniziare a distinguerli e studiarli separatamente. Mettendo fine a quel mito e anche discutendo quelle strategie elettorali che ci mostrano migrazioni di abitanti del suburbio bianchi agiati verso i Democratici, o invece di ceti a basso reddito verso i Repubblicani. Come chiariscono diversi studi recenti, non esistono soluzioni semplici alla diseguaglianza suburbana, a meno di affrontarla in quanto tale nella sua complessità. Ma anche che qualsiasi strategia generale contro le diseguaglianze il suburbio deve comprenderlo e capirlo, meglio di quanto non si sia fatto sinora.

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Le proteste di Black Lives Matter nel 2020 hanno rinnovato l’interesse per le forze storiche che hanno indotto la segregazione razziale nei contesti urbani e suburbani. The Color of Law di Richard Rothstein, sale nell’elenco dei libri più venduti del New York Times e si afferma come lettura necessaria in molti ambienti, inclusi quelli suburbani. Ma è un libro che a sua volta produce una nuova mitologia delle origini della segregazione e della diseguaglianza. Secondo The Color of Law la segregazione residenziale sarebbe un risultato lineare delle politiche governative più che un prodotto delle iniziative private di trasformazione. Insieme al fondamentale articolo di Ta-Nehisi Coates sull’Atlantic «The Case for Reparations», il libro di Rothstein rende familiari e correnti anche terminologie come «redlining» [che potremmo tradurre qui con Norme Tecniche e/o Convenzioni n.d.t.]. Se il sottotitolo di The Color of Law recita Una Storia Dimenticata si tratta in realtà di temi molto studiati e approfonditi dalla storia urbana, da autori come Kenneth T. Jackson, Thomas J. Sugrue, David Freund, Lizabeth Cohen, Robert Self, o N.D.B. Connolly. Rothstein ne dà una versione ultra-semplificata troppo centrata su alcune scelte della politica a metà del secolo scorso.

Lo storico Destin Jenkins ha scritto un’aspra critica all’uscita del libro quando fu pubblicato nel 2017, sostenendo che tutto quel concentrarsi di Rothstein sulle leggi e norme saltava a piè pari ogni meccanismo di libero mercato teso a produrre la segregazione strutturale. Colin Gordon col suo Patchwork Apartheid allarga le critiche di Jenkins esaminando il ruolo degli operatori privati e dei loro metodi, specie leggibili nelle convenzioni, nel produrre segregazione. Secondo questi tipi di privata convenzione [quelle che redatte dai costruttori vengono sottoscritte dai potenziali abitanti per accedere agli alloggi n.d.t.] si escludono gli afroamericani da quasi tutti i quartieri, relegandoli forzosamente là dove li si può sfruttare con affitti o mutui speculativi. Grazie una davvero monumentale ricerca d’archivio, Gordon riesuma tutta la documentazione dei processi burocratici locali (materiali spesso scritti a mano e solo assai recentemente in parte digitalizzati) di cinque circoscrizioni campione di contea del Midwest, tra cui quella di St. Louis e la Hennepin County che comprende Minneapolis. Gordon ci mostra quanto queste convenzioni siano molto più determinanti delle norme tecniche urbanistiche o delle politiche federali di sostegno all’edilizia. Scelte specifiche come quelle delle norme urbanistiche di zona esclusive «di fatto servono a sostenere e legittimare pratiche già consolidate come quelle delle convenzioni private». Certo è difficile però negare che l’investimento governativo nella suburbanizzazione di massa dopo la seconda guerra mondiale quelle pratiche le allarghi all’infinito.

La politica federale sostiene milioni di acquirenti di prima casa, lasciando però fuori gli afroamericani. Levittown a Long Island, il primo prodotto suburbano organizzato di massa, viene sostenuto dalla Federal Housing Administration, prevalentemente per alloggiare veterani che hanno accesso ai mutui agevolati previsti dal GI Bill. La vera e propria migrazione di massa verso Levittown e sobborghi simili moltiplica quel modello di middle class americana: si offre a milioni di cittadini la proprietà agevolata della casa allargando nel contempo il solco razziale. L’amministrazione federale per la casa introduce la convenzione esclusiva dentro quella più generale col costruttore William Levitt. Anche dopo la dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte Suprema nel 1948, Levitt continua in tutti i modi ad opporsi alla vendita di appartamenti a proprietari afroamericani. A una domanda su questo argomento dà una risposta memorabile:

«Sono ebreo e non c’è alcuno spazio in me per il pregiudizio razziale, ma so anche benissimo che se vendessimo case a famiglie negre, poi il 90-95% della clientela bianca non comprerebbe più in quel quartiere. È il loro comportamento, non il nostro. Come attività economica la nostra posizione si riassume semplicemente in: potremmo risolvere la questione razziale oppure quella delle abitazioni, ma non entrambe».

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E si tratta anche dell’atteggiamento prevalente in tutto il settore delle costruzioni, immobiliare, e dello stesso ente federale per la casa. Per tutti gli anni ’50 tra gli oltre 60.000 abitanti di Levittown non si contava un solo nero.

Ma la segregazione ci racconta solo una parte della storia. Come documenta il seminale lavoro di Tim Keogh, In Levittown’s Shadow, la stessa ricchezza dei quartieri del dopoguerra sul modello di Levittown si alimenta della povertà e sfruttamento di altri quartieri suburbani. Le periferie in questo periodo non sono fatte solo di case ma anche di industrie, assai sostenute economicamente sia dal governo federale che dalle amministrazioni locali con generosi incentivi fiscali a chi propone di costruire uffici e capannoni. Long Island diventa un territorio di imprese legate al settore militare, con ricche commissioni governative trascinate dalla Guerra Fredda. Molti dei posti di lavoro di queste fabbriche sono qualificati e ben remunerati, consentendo ai dipendenti di aspirare a una casetta del tipo Cape Cod oppure ranch in uno dei tanti quartieri dell’immensa area di espansione suburbana. La discriminazione razziale ostacola però l’accesso a questi posti di lavoro, agli afroamericani, ai migranti portoricani, specie alle donne. Questi gruppi sociali trovano impiego in settori più precari, non sindacalizzati e tutelati secondo le leggi approvate nel New Deal: pulizie, cura della persona specie dei bambini, cura del verde, immagazzinaggio, lavoro non qualificato in edilizia. E proprio questa ampia disponibilità di manodopera nelle costruzioni consente a operatori come Levitt di fare tanto in fretta e tenere bassi i prezzi.

Chi non trova lavoro fisso nelle fabbriche del settore difesa di long Island non può nemmeno chiedere un mutuo agevolato a FHA, e quindi scegliere una opzione abitativa. Alcune famiglie nere si rivolgono a un mercato parallelo speculativo per comprarsi casa. Altre affittano a prezzi carissimi da speculatori, o comunque da forme collaterali e semiabusive di mercato come quello delle «finte case di Levittown suddivise in appartamenti più piccoli». Alloggi abusivi realizzati in garage, sottotetti, baracche, e in zone dove sta avvenendo una vera e propria transizione razziale. Le amministrazioni locali chiudono un occhio su queste pratiche. E intraprendenti operatori si avvantaggiano di tutti questi esclusi dal mercato protetto del suburbio convenzionale, incassando rendite esorbitanti. I lavoratori domestici o precari in altri settori spendono gran parte dei magri salari per affittare alloggi miserabili infestati dai topi ricavati in qualche angolo di edifici suburbani. Secondo Keogh, questa immagine di povertà è eloquente «manifestazione di nessuna idea di welfare o democrazia sociale americana».

A peggiorare il problema continua quell’immagine mediatica del suburbio equivalente di benessere, mentre la povertà sarebbe per qualche ragione sempre solo urbana. Keog parla di «eccezionalismo suburbano» che poi conduce a politiche come lo spostamento delle famiglie di colore dalla città al suburbio costruendoci case economiche, o migliorando i trasporti pubblici, secondo un criterio di redistribuzione delle persone anziché della ricchezza. Ne è ancora un esempio quel programma dell’amministrazione Obama che si chiama Affirmatively Furthering Fair Housing, accusato poi da Trump che ritiene i Democratici responsabili di voler «cancellare il suburbio». Mentre come ci dimostra Keogh i poveri in realtà nel suburbio ci hanno sempre abitato. La diseguaglianza non viene prodotta dalla difficoltà di accesso a quei quartieri: il colpevole dobbiamo cercarlo in un meccanismo di mercato che sfrutta i più deboli e in un welfare misero.

Il tema dell’eccezionalismo suburbano ispira la Guerra alla Droga trattata da Matthew D. Lassiter nel suo nuovo e importante libro, The Suburban Crisis. Lassiter – che è stato uno dei docenti di riferimento del mio dottorato, oltre che collaboratore in alcuni saggi – sviluppa il ruolo spesso sottovalutato del privilegio bianco suburbano nelle politiche anti droga ai vari livelli. Da estese ricerche d’archivio con The Suburban Crisis si riesce a ricostruire il modo in cui la politica, insieme alle associazioni di base dei cittadini abitanti i suburbi, protegge i giovani di ceto medio bianchi dai pericoli individuati delle droghe, in particolare dalla marijuana. Adolescenti bianchi «del tutto osservanti della legge» vengono posti al centro simbolico, sostiene Lassiter, delle politiche antidroga insieme ad altre figure tipo come il giovane spacciatore nero e il grande trafficante latinoamericano. E sono in molti nel mondo della politica a pensare correntemente come il modo più semplice per tutelare i giovani bianchi di ceto medio dall’abuso di droghe sia di segregarli in suburbi monoclasse.

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«Nel 1973 gli americani bianchi costituiscono l’81% degli arresti per droga e l’89% dei motivi di ansia» scrive Lassiter, però sono molto pochi a finire davvero in prigione. Una concezione molto condivisa che data dai primissimi anni ’50 fa sì che questi giovani vengano tolti alle loro «buone famiglie» e inoltrati in programmi di disintossicazione obbligatoria e simili. Ci pensano i giudici a ridimensionare le accuse per i comportamenti in reati minori purché si accetti la terapia obbligatoria, evitando anche di guastare la fedina penale e compromettere l’ammissione al college. Secondo Lassiter tutti questi salvataggi giudiziari si inseriscono dentro una precisa «politica repressiva e carceraria nazionale». Non è che manchi il controllo di polizia nei sobborghi ricchi, ma la legge viene applicata in modo selettivo. Un aspetto riconosciuto anche da Ocasio-Cortez nel 2020, quando parlava di quei quartieri in modo un po’ più circostanziato: «Se un adolescente o un bambino combina qualcosa di grave nel quartiere la comunità bianca cerca in ogni modo di trovare alternative al carcere – dalla comunità ai lavori socialmente utili – per i propri figli di cui vorrebbe tutelare il futuro. Perché non si fa lo stesso coi giovani di colore?».

Sviluppando alcuni spunti del suo primo libro, The Silent Majority, poi Lassiter sottolinea quanto gli abitanti del suburbio riescano a piegare le politiche statali e federali. Ad esempio sono in migliaia i californiani che scrivono al Governatore negli anni ’50 chiedendo pene severissime fino alla condanna a morte, per chi spaccia marijuana ed eroina, ed è il primo passo verso la legge sulle condanne minime del 1951. Attivisti suburbani del «potere ai genitori» tra gli anni ’70 e ’80, favorevoli ad una tolleranza zero sulle droghe, condizionano le politiche delle amministrazioni Carter e Reagan. Ma ci avverte Lassiter di non leggere semplicemente questi movimenti e leggi come ascesa di conservatorismo. Tra i vari protagonisti spiccano onesti esponenti del progressismo, ma è del tutto bipartisan quell’approccio di discriminazione razziale nella Guerra alla Droga.

Una prima serie di studi sulle politiche suburbane conclude la propria analisi nell’epoca tra gli anni ’70 e ’80 quando gli abitanti bianchi difendono i propri quartieri dall’invasione-desegregazione, dalle case economiche, dagli aumenti delle tasse; un atteggiamento dei bianchi che è essenziale a sostenere l’ascesa di Reagan e della Nuova Destra. Oltre a dare una immagine piuttosto distorta del quadro politico suburbano – ignorando per esempio la gran quantità di esponenti liberal Democratici che abitano il suburbio – questi studi non affrontano in realtà altri modi in cui i suburbi si evolvono dalla presidenza Reagan in poi. Le quantità di residenti di colore crescono, da meno del 10% nel 1970 sino al 45% nel 2020. I dati dicono che oggi nelle zone qualificate dalle circoscrizioni censuarie come suburbi vive una maggioranza di neri, asiatici, latini, e sono tantissimi gli immigrati che saltando la fase del passaggio nelle città centrali vanno a costituire quelli che il geografo Wei Li ha soprannominato «Etnoborghi». Ma contemporaneamente le sacche di povertà suburbana di cui abbiamo accennato nel caso di Long Island si sono moltiplicate a scala nazionale. Tra il 2000 e il 2015, le persone in condizioni di povertà negli Stati Uniti sono cresciute di 11,5 milioni, con quasi metà di quella crescita nelle zone suburbane, 5,7 milioni. E nel 2018 si calcolavano tre milioni di abitanti in più nel suburbio rispetto alle città.

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Nelle elezioni del 2020, Biden ha cercato di usare queste cifre come strumento per contrastare l’immagine cara a Trump, della omogeneità suburbana. In un dibattito, Biden provava a ricordare «insomma non siamo più negli anni ’50, certi atteggiamenti razzisti e appelli ai peggiori istinti non funzionano, i quartieri suburbani sono molto integrati. … Possiamo anche vederli tutti quei gruppi in auto con bambini che vanno a giocare al pallone insieme, neri bianchi ispanici». Ma anche Biden inciampava in un altro mito: è vero che i suburbi nell’ultimo mezzo secolo sono diventati assai più diversificati, ma la segregazione per razza e classe pare più forte che mai, specie quando si tratta di bianchi ricchi. Anche là dove si vanta molta diversità razziale non mancano grossi problemi. Il migliore esempio è il caso della zona piuttosto agiata di Shaker Heights, a Cleveland, a lungo modello nazionale di convivenza specie nelle scuole pubbliche. L’amministrazione locale aveva lavorato molto per spingere all’integrazione sia delle residenze che delle scuole negli anni ’50, scegliendo un percorso unico nel paese.

La giornalista Laura Meckler spiega in Dream Town, come i media nazionali e gli studiosi insieme presentano Shaker Heights luogo «speciale» di gestione innovativa e progressista all’integrazione «davvero degno di nota». Meckler, cresciuta a Shaker Heights (ci è cresciuto anche mio padre per inciso di cui si parla nel libro), esamina tutte le difficili sfide affrontate con quelle scelte, specie dopo gli anni ’70, col crescere delle disparità economiche e le differenze croniche di rendimento scolastico negli istituti modello. Nonostante parecchi tentativi, non si riesce a ridurre la diseguaglianza e le conseguenti tensioni razziali. Shaker Heights non rappresenta poi un caso unico da questo punto di vista: come verificato dalla serie di documentari America to Me, a comprendere anche Oak Park, Illinois, i conflitti a proposito della resa scolastica sono endemici là dove si sperimentano percorsi di integrazione.

Possibilità e problemi di una vera integrazione razziale rappresentano poi il centro di attenzione della storica Becky M. Nicolaides nel suo The New Suburbia. Nicolaides affronta il caso di Los Angeles, che propone come indicatore di diversificazione suburbana, specialmente dopo l’ingresso di immigrazione asiatica e latina dopo lo Immigration Act 1965. Storica sociale, Nicolaides nota quanto questa novità influenza la vita quotidiana degli abitanti tradizionali e il loro senso di comunità. Asiatici, latini, e afroamericani, aggiungono le proprie culture e sensibilità cambiando radicalmente il panorama suburbano di Los Angeles. Nicolaides rileva anche quanto molti suburbaniti di colore abbiano poi imitato i loro colleghi bianchi adottando pratiche di esclusione nei confronti dei più poveri. Alla diversificazione razziale di L.A. si accompagna un aggravamento della diseguaglianza economica, a rispecchiare cambiamenti nell’economia globale.

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Come a Long Island, lo sviluppo locale di Los Angeles è molto dipendente dall’industria legata alle commesse militari e relativo mercato del lavoro, finché con la fine della Guerra Fredda e la globalizzazione quelle aziende iniziano a chiudere e l’economia rallenta. Si riduce il ceto medio e i sobborghi di L.A. somigliano sempre più alla «economia della clessidra» in cui crescono da un lato sobborghi di super ricchi e dall’altro quelli più poveri. La diversificazione suburbana coincide poi con una svolta di tipo politico sia in California che a livello nazionale. Dall’austerity negli anni ’80 e successivi si adottano in questi quartieri soluzioni privatistiche – dal finanziamento diretto di alcuni servizi alla vigilanza – che fanno crescere le diseguaglianze dentro e fuori i suburbi. Nicolaides ci conferma come non esista un monolitico modello di sobborgo bianco, né a Los Angeles né altrove. Ma ancora non abbandona l’eterno fascino dell’American Dream, la speranza che in qualche modo e misura il sobborgo sia il luogo dove persone di diverse provenienze possano «scoprire come vivere insieme pur nella differenza».

Benjamin Herold è un giornalista e nel suo Disillusioned offre una prospettiva pessimista cercando di capire perché tanti americani siano delusi da Suburbia. Il libro è anche una sorta di anamnesi di riflessione dato che Herold è cresciuto a Penn Hills, nella periferia di Pittsburgh suburb, dove ai suoi tempi tra gli anni ’80 e i primi ’90 dominavano i bianchi agiati, esistevano ottime scuole pubbliche, e solide per quanto modeste casette unifamiliari ranch. Herold si domanda perché luoghi come Penn Hills non mantengano più la propria promessa. In tutto il paese e in tutte le fasce sociali si tenta da molto tempo di superare gli aspetti negativi della crescita suburbana e dell’esclusione razziale, ma oggi l’intero sistema è in crisi.

Herold, così come Meckler, ha da sempre il sistema scolastico al centro dei propri interessi, e individua nella scuola il nodo centrale in cui si manifestano le tensioni di crescita e razziali. Il resoconto che ne deriva conferma la centralità dell’istruzione nell’esperienza suburbana, oltre all’impossibilità di risolvere in quell’ambito solo le diseguaglianze, che pure lì si rendono assai visibili. Al tempo stesso rivelatrici e originali le parallele esplorazioni che Herold ci propone sui costi a lungo termine e l’insostenibilità dell’espansione suburbana. Sappiamo molto di quante risorse abbia assorbito quel modello di sviluppo, ma abbastanza poco sul debito accumulato. Nel dopoguerra migliaia di quartieri come quelli di Penn Hills crescevano rapidamente nella scia di quanto accaduto con Levittown. Il governo federale garantiva sussidi per strade, scuole, marciapiedi, reti tecniche, ma non garantiva la manutenzione di lungo termine delle medesime strutture. Gli abitanti si sono assuefatti a poche tasse e buoni servizi, continuando ad esprimere consenso anche elettorale ai meccanismi finanziari che quel debito lo accumulavano. Poi peggiorando i servizi molte famiglie bianche se ne sono andate verso l’esurbio più esterno, ricominciando là di fatto il medesimo meccanismo. Dentro le case lasciate disponibili hanno iniziato a spostarsi famiglie di colore, che ereditavano così «il cerino» di debito e servizi degradati.

Herold paragona questi cicli di sviluppo generazionali a quei metodi di coltura di sfruttamento «taglia e brucia» o ad una «bomba ad orologeria» o ancora meglio a uno schema finanziario Ponzi. Ferguson, Missouri, ne è un esempio caratteristico. Tra gli anni ’60 e ’70 quando la cittadina era quasi esclusivamente bianca l’amministrazione locale chiedeva sussidi federali e statali per i prestiti e realizzazione di infrastrutture. Dalla fine dei ’70 poi Ferguson ha visto una costante transizione economica e razziale, iniziando ad assumere i tratti caratteristici della povertà suburbana. Con la perdita della propria precedente base fiscale e il debito che si impennava, l’amministrazione ha cominciato a sfruttare i cespiti di multe e cause civili a coprire i costi di esercizio. Michael Brown è stato la vittima di questo accanirsi così tanto sulle contravvenzioni.

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Herold ricostruisce una serie di vicende familiari in zone che attraversano i vari stadi di questo meccanismo boom-bolla: da quella di una famiglia di immigrati messicani senza documenti di Compton, California (un vero caso pilota da questo punto di vista), a un’altra di bianchi ed elettori di Trump che traslocano da Plano, Texas, in una nuova casa da cinquecento metri quadri in un esurbio razzialmente omogeneo e dotato di ottime scuole. La cittadina natale di Herold si colloca più o meno a mezza strada tra questi due estremi: Penn Hills oggi mescola una rischiosa combinazione di trasformazioni sociali ed economiche, costi dei servizi, tasse crescenti, valori immobiliari che si impennano. Le case della zona non sono più un capitale con valore d’uso che si passa da una generazione all’altra ma diventano un cespite da sfruttare coi nuovi abitanti di colore. Il padre di Herold ha venduto la casa in cui era nato nel 2014 a 27.000 dollari a qualcuno incrociato su un sito di transazioni immobiliari. Herold descrive il processo dal punto di vista di una giovane madre nera single, Bethany Smith, che ha comprato casa pochi metri più in là sulla stessa via di quella di Herold, dopo essere stata espulsa con la leva economica della gentrification dal suo quartiere di Pittsburgh. Quel che rende la signora Smith tanto persuasiva è il suo respingere convinta l’immagine di «disillusione» in cui prova a collocarla Herold e che appare per questo assai forzosa: «Io personalmente? Io vado benissimo» risponde e ribadisce Smith.

In un’altra conversazione Herold spiega a Smith come «sia importante guardare al quadro generale». Più di ogni altro luogo, il suburbio chiaramente e tangibilmente mostra il modo in cui le strutture economiche e le politiche pubbliche inquadrino l’esistenza delle persone. Come racconta Smith a Herold, comunque, è importante non considerare i singoli abitanti del suburbio, attuali e del passato, come vittime passive di quello spazio e quelle politiche, spogliandoli artificiosamente di soggettività e ruolo attivo. Secondo Smith è sbagliato poi ridurre la storia suburbana ad una semplice narrazione di ascesa e declino.

La signora Smith ci fornisce lo spunto per tornare ai critici che considerano gli abitanti del suburbio come affetti da falsa coscienza. Lei non ignora affatto i problemi della comunità, si preoccupa delle tasse sempre più alte, delle bollette sempre più salate, delle scuole inadeguate che adesso frequentano i suoi figli. Ma ciò non significa per Smith respingere la promessa di suburbia e del Sogno Americano come si aspettava Herold. Lei e altri abitanti afroamericani di quartieri come Penn Hills «vogliono costruirsi una nuova vita» come dichiara. «Vogliamo la medesima occasione che hanno avuto le famiglie bianche … ma però stavolta vogliamo farla durare nel tempo». La signora Smith solleva di fatto la questione, se il suburbio debba o meno restare un ideale, una aspirazione, nonostante le disastrose conseguenze economiche, sociali, ambientali. Ovvero se possa essere meglio seguire le indicazioni di Smith cercando di costruire una nuova versione di Sogno Americano ma più equa e sostenibile, oppure sostenere un modello urbano di densità residenziale e trasporti pubblici. Probabilmente né l’uno né l’altro.

I quartieri suburbani ancora non hanno assunto per le elezioni del 2024 il ruolo drammatico che ebbero quattro anni prima, nonostante il tentativo forse poco convinto di Trump di recuperare quella denuncia di voler «cancellare Suburbia». Ma restano certamente terreno di contesa politica e simboli di rimescolamenti degli equilibri di classe, di schieramento, di nazione. Anziché celebrare o condannare la loro omogeneità, dovremmo prima riconoscere che si tratta di eterogeneità, e sarebbe il primo posso verso nuove politiche per la casa, l’istruzione, la povertà, la lotta al crimine, meglio orientate a chi quei luoghi li abita.

La storia del suburbio evidenzia il ruolo del governo federale, e delle forze di libero mercato, nel generare diseguaglianza strutturale Ciò significa anche che il governo ha il potere di modificare le cose. Usarlo quel potere pare essenziale verso un programma più social-democratico e universalista, dove vengano considerati beni comuni disponibili a tutti abitazioni, lavoro, cura dei minori, un’istruzione qualificata, senza criminalizzare problemi come l’abuso di sostanze proibite. Proiettando così verso obiettivi di maggiore equità tutta la a lungo sedimentata consapevolezza e capacità di pressione degli abitanti del suburbio.

Ciò richiede una serie di innovative e mirate politiche suburbane. E superare la narrazione elettorale dei partiti, riconoscendo che il suburbio non è né ricco né enclave bianca, ma neppure una utopia multirazziale. Vuol dire guardare verso diverse forme di associazionismo locale che già si formano sui temi della violenza, della giustizia economica, dei diritti degli immigrati, coltivando innovazioni come i bilanci partecipati, i diritti degli inquilini, la sensibilità al cambiamento climatico. Politiche suburbane fondamentali per affrontare la segregazione razziale e la diseguaglianza economica tanto influenti nella vita americana. Superando finalmente la mitologia di suburbia e del Sogno Americano.

da: Dissent, autunno 2024; Titolo originale: A New Suburban Politics – Traduzione di Fabrizio Bottini – l’autrice dell’articolo Lily Geismer insegna Storia al Claremont McKenna College, California. Ha pubblicato tra l’altro «Don’t Blame Us: Suburban Liberals and the Transformation of the Democratic Party» (Princeton, 2015) e «Left Behind: The Democrats’ Failed Attempt to Solve Inequality» (PublicAffairs, 2022).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Colin Gordon, Patchwork Apartheid: Private Restriction, Racial Segregation, and Urban Inequality, Russell Sage Foundation, 2023
  • Tim Keogh, In Levittown’s Shadow: Poverty in America’s Wealthiest Postwar Suburb, University of Chicago Press, 2023
  • Matthew D. Lassiter, The Suburban Crisis: White America and the War on Drugs, Princeton University Press, 2023
  • Becky M. Nicolaides, The New Suburbia: How Diversity Remade Suburban Life in Los Angeles after 1945, Oxford University Press, 2024
  • Benjamin Herold, Disillusioned: Five Families and the Unraveling of America’s Suburbs, Penguin Press, 2024
  • Laura Meckler, Dream Town: Shaker Heights and the Quest for Racial Equity, Henry Holt & Co., 2023

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